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Pacecco De Rosa (1607-1656) - Santa Maria Egiziaca
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Pacecco De Rosa (1607-1656) - Santa Maria Egiziaca

GIOVANNI FRANCESCO DE ROSA, detto PACECCO DE ROSA (Napoli, 1607 – 1656) Santa Maria Egiziaca, 1630 circa Olio su tela, cm. 75,7 x 60,5 Expertise Prof. Stefano Causa NOTE: Pubblicazione catalogo opere della collezione Intermidiart. Expertise Prof. Stefano Causa. Opera non firmata. Certificato di Garanzia e Lecita Provenienza. Opera senza cornice: L’opera, inedita e proveniente da un’importante collezione meridionale, è stato ricondotto al catalogo del giovane Giovanni Francesco De Rosa detto Pacecco De Rosa (Napoli, 1607 – 1656), dal noto storico Stefano Causa con una scheda scritta ai proprietari: “ … In ottime condizioni di conservazione questo bel dipinto di tema sacro, destinato alla devozione privata va restituito, senza indugi, alla scena vicereale del primo trentennio del ‘6oo, giusto a metà strada tra il tardo Battistello Caracciolo (1578-1635) e la maturità di un grande pittore spagnolo di acclimatazione napoletana, Jusepe de Ribera (che scompare nel 1652). Ma subito prima di arrotondare l’attribuzione sulla base della lettura dello stile, soffermiamoci sul modo in cui il pittore - un maestro di primissimo livello, qui probabilmente agli esordi - sia riuscito a contenere, stringendola in un metro scarso di pittura, una somma notevole di elementi formali e culturali. Al riparo di un anfratto roccioso, sfinita dai digiuni una donna non più giovanissima, di corporatura ossuta ma solida, medita sul Crocifisso. È Santa Maria Egiziaca, monaca ed eremita, ex cortigiana di Alessandria convertitasi e vissuta tra IV e V secolo: come indicano gli attributi del triplice giro del rosario nonché della terna di pezzi di panne, simbolo trinitario, collocati studiatamente sul masso della grotta in primo piano, mirabile natura morta posta a chiudere il quadro nell’angolo a destra. La donna indossa un mantello rappezzato con qualche industriosità, che a malapena le copre la parte superiore del busto (ma la vulgata vuole che, una volta consumato, l’eremita, nel deserto di Giordania, si coprisse con i soli capelli). Illuminato da sinistra, il dipinto è costruito con una tavolozza ridottissima, tutta giocata sulle terre, sui marroncini e sui grigi; salvo un deciso rischiaramento negli incarnati del viso, della spalla, delle nocche delle mani e, soprattutto, nel tour de force luministico del busto scoperto per una parte. Ma a dispetto della presentazione spartana, la scrittura pittorica appare di speciale finezza: nei minimi sbuffi di pennello dell’orlo del mantello, al ricamo della sarcitura della toppa sul risvolto del mantello stesso, fino ai colpi di luce sui grani del rosario, enumerati uno ad uno; per non parlare della meticolosa definizione chiaroscurale del legno del Crocifisso, dalle ombre portate sul palmo della mano. A finire con la perentora presentazione dei pani, che non sfigurerebbe in un dipinto maturo di Battistello Caracciolo (a cominciare dalla “Lavanda dei Piedi” del 1622 del coro della Chiesa della Certosa di San Martino). Battistello e la sua cerchia sono sempre alle spalle. Ma inoltrandosi nella lettura del dipinto emerge l’aggiornamento del pittore sulle novità del Ribera (giunto a Napoli nel 1616). Ma si tratta, attenzione, di un Ribera guadagnato con una solidità di impianto che deferisce ancora alla stagione del caravaggismo uscente; più specificamente, direi, a quella particolare declinazione del lessico battistelliano che ritroviamo in una personalità, dal catalogo ancora in formazione, come il cosiddetto ‘Maestro di Fontanarosa’ (oggi identificato nel nome storico di Giuseppe Di Guido). E questo pittore, che i maggiori cursori di ‘6oo napoletano sono riusciti a isolare da oltre trent’anni, è uno dei maggiori satelliti locali del Caracciolo. Attenzione. Che questo dipinto, di cui l’analisi formale suggerisce una possibile collocazione sul finale del primo trentennio, possa appartenergli pare nondimeno da escludere. L’addolcimento nell’espressione della santa; l’acciaccatura di pennello nella sclera dell’occhio (che sembra alludere ad una lacrima); l’intenerimento negli incarnati del viso sono tutti elementi che alludono alla mano di un pittore ben noto e diffuso, nel Vicereame e anch fuori. Parliamo di Pacecco De Rosa, nato nel 1607 e già in grado di cominciare a lavorare, col patrigno Filippo Vitale, nel corso degli anni 1620. Il confronto con la “Santa Maria Egiziaca” di collezione privata, resa nota nella prima e unica monografia sul maestro, e che abbiamo riprodotto qui in calce sia pure in controparte, dovrebbe fugare ogni dubbio. Scomparso durante la peste del 1656, Pacecco De Rosa è perlopiù conosciuto per le opere mature e tarde a destinazione privata quando partecipa - se non da protagonista almeno in primissima posizione - a quella fase, ancora tutta da definire, della scena napoletana che io stesso, alcuni anni fa, definii del “purismo napoletano”. Si tratta di una parentesi, cromaticamente brillante e smaltata, in cui la cultura figurativa napoletana e vicereale accusa un risentimento del lessico del Domenichino (operoso a Napoli nel corso degli anni 1630) e di alcuni pittori attivi a Roma. Ora, se sono tutt’altro che rari i dipinti di Pacecco di questa fase particolare, non altrettanto ricco il carniere delle opere giovanili; difficilissime da riconoscere e, dunque, anche da datare. Come è, appunto, il caso della tela in esame dove appare ancora viva e operante la lezione del tardo caravaggismo locale, specialmente nella linea che va, appunto, da Battistello al primo Ribera. Anche a voler tener aperto sul tavolo il catalogo ragionato del pittore, pubblicato a suo tempo dal compianto Vincenzo Pacelli, l’evidenza è quella di un prodotto esemplare della prima maturità di Pacecco; in ogni caso il quadro nel quale appare più scoperta la vicinanza al mondoo formale, tornito e sintetico di Battistello; oltreché, specialmente, di un suo allievo che, come anticipato, abbiamo cominciato a conoscere a partire dal 1991: il ‘Maestro di Fontanarosa’ alias, Giuseppe Di Guido (Expertise Stefano Causa) …” In merito al suo stato conservativo, la tela versa in discreto stato conservativo. La superficie pittorica si presenta in patina. Si notano – a luce di Wood – piccoli restauri sparsi. Non sono presente, inoltre grande svelatura e ossidazione della superficie pittorica. A luce solare è visibile una craquelé rapportato all'epoca. Il dipinto – di buona mano pittorica – è molto interessante sia per la sua impostazione iconografica, sia per la stesura dei colori, sinonimo di un’artista di grande qualità interpretativa. Le misure della tela sono cm. 62 x 50. Il dipinto viene ceduto senza cornice, nonostante risulta impreziosita da una pregevole cornice in legno intagliato e dorato antico (?) di grande valore. L’opera verrà spedito – in quanto fragile – con cassa di legno e polistirolo. Provenienza: Coll. Privata Siciliana Pubblicazione:  Inedito;  I Miti e il Territorio nella Sicilia dalle mille culture. INEDITA QUADRERIA catalogo generale dei dipinti della collezione del ciclo “I Miti e il territorio”, Editore Lab_04, Marsala, 2024. Nel caso di vendita al di fuori del territorio italiano, l'acquirente dovrà attendere i tempi di evasione delle pratiche di esportazione.

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detto PACECCO DE ROSA
(Napoli, 1607 – 1656)
Santa Maria Egiziaca, 1630 circa
Olio su tela, cm. 75,7 x 60,5
Expertise Prof. Stefano Causa


NOTE: Pubblicazione catalogo opere della collezione Intermidiart. Expertise Prof. Stefano Causa. Opera non firmata. Certificato di Garanzia e Lecita Provenienza. Opera senza cornice:

L’opera, inedita e proveniente da un’importante collezione meridionale, è stato ricondotto al catalogo del giovane Giovanni Francesco De Rosa detto Pacecco De Rosa (Napoli, 1607 – 1656), dal noto storico Stefano Causa con una scheda scritta ai proprietari:
“ … In ottime condizioni di conservazione questo bel dipinto di tema sacro, destinato alla devozione privata va restituito, senza indugi, alla scena vicereale del primo trentennio del ‘6oo, giusto a metà strada tra il tardo Battistello Caracciolo (1578-1635) e la maturità di un grande pittore spagnolo di acclimatazione napoletana, Jusepe de Ribera (che scompare nel 1652). Ma subito prima di arrotondare l’attribuzione sulla base della lettura dello stile, soffermiamoci sul modo in cui il pittore - un maestro di primissimo livello, qui probabilmente agli esordi - sia riuscito a contenere, stringendola in un metro scarso di pittura, una somma notevole di elementi formali e culturali.
Al riparo di un anfratto roccioso, sfinita dai digiuni una donna non più giovanissima, di corporatura ossuta ma solida, medita sul Crocifisso. È Santa Maria Egiziaca, monaca ed eremita, ex cortigiana di Alessandria convertitasi e vissuta tra IV e V secolo: come indicano gli attributi del triplice giro del rosario nonché della terna di pezzi di panne, simbolo trinitario, collocati studiatamente sul masso della grotta in primo piano, mirabile natura morta posta a chiudere il quadro nell’angolo a destra. La donna indossa un mantello rappezzato con qualche industriosità, che a malapena le copre la parte superiore del busto (ma la vulgata vuole che, una volta consumato, l’eremita, nel deserto di Giordania, si coprisse con i soli capelli).
Illuminato da sinistra, il dipinto è costruito con una tavolozza ridottissima, tutta giocata sulle terre, sui marroncini e sui grigi; salvo un deciso rischiaramento negli incarnati del viso, della spalla, delle nocche delle mani e, soprattutto, nel tour de force luministico del busto scoperto per una parte. Ma a dispetto della presentazione spartana, la scrittura pittorica appare di speciale finezza: nei minimi sbuffi di pennello dell’orlo del mantello, al ricamo della sarcitura della toppa sul risvolto del mantello stesso, fino ai colpi di luce sui grani del rosario, enumerati uno ad uno; per non parlare della meticolosa definizione chiaroscurale del legno del Crocifisso, dalle ombre portate sul palmo della mano. A finire con la perentora presentazione dei pani, che non sfigurerebbe in un dipinto maturo di Battistello Caracciolo (a cominciare dalla “Lavanda dei Piedi” del 1622 del coro della Chiesa della Certosa di San Martino).
Battistello e la sua cerchia sono sempre alle spalle. Ma inoltrandosi nella lettura del dipinto emerge l’aggiornamento del pittore sulle novità del Ribera (giunto a Napoli nel 1616). Ma si tratta, attenzione, di un Ribera guadagnato con una solidità di impianto che deferisce ancora alla stagione del caravaggismo uscente; più specificamente, direi, a quella particolare declinazione del lessico battistelliano che ritroviamo in una personalità, dal catalogo ancora in formazione, come il cosiddetto ‘Maestro di Fontanarosa’ (oggi identificato nel nome storico di Giuseppe Di Guido). E questo pittore, che i maggiori cursori di ‘6oo napoletano sono riusciti a isolare da oltre trent’anni, è uno dei maggiori satelliti locali del Caracciolo. Attenzione. Che questo dipinto, di cui l’analisi formale suggerisce una possibile collocazione sul finale del primo trentennio, possa appartenergli pare nondimeno da escludere.
L’addolcimento nell’espressione della santa; l’acciaccatura di pennello nella sclera dell’occhio (che sembra alludere ad una lacrima); l’intenerimento negli incarnati del viso sono tutti elementi che alludono alla mano di un pittore ben noto e diffuso, nel Vicereame e anch fuori. Parliamo di Pacecco De Rosa, nato nel 1607 e già in grado di cominciare a lavorare, col patrigno Filippo Vitale, nel corso degli anni 1620. Il confronto con la “Santa Maria Egiziaca” di collezione privata, resa nota nella prima e unica monografia sul maestro, e che abbiamo riprodotto qui in calce sia pure in controparte, dovrebbe fugare ogni dubbio.
Scomparso durante la peste del 1656, Pacecco De Rosa è perlopiù conosciuto per le opere mature e tarde a destinazione privata quando partecipa - se non da protagonista almeno in primissima posizione - a quella fase, ancora tutta da definire, della scena napoletana che io stesso, alcuni anni fa, definii del “purismo napoletano”. Si tratta di una parentesi, cromaticamente brillante e smaltata, in cui la cultura figurativa napoletana e vicereale accusa un risentimento del lessico del Domenichino (operoso a Napoli nel corso degli anni 1630) e di alcuni pittori attivi a Roma. Ora, se sono tutt’altro che rari i dipinti di Pacecco di questa fase particolare, non altrettanto ricco il carniere delle opere giovanili; difficilissime da riconoscere e, dunque, anche da datare.
Come è, appunto, il caso della tela in esame dove appare ancora viva e operante la lezione del tardo caravaggismo locale, specialmente nella linea che va, appunto, da Battistello al primo Ribera.
Anche a voler tener aperto sul tavolo il catalogo ragionato del pittore, pubblicato a suo tempo dal compianto Vincenzo Pacelli, l’evidenza è quella di un prodotto esemplare della prima maturità di Pacecco; in ogni caso il quadro nel quale appare più scoperta la vicinanza al mondoo formale, tornito e sintetico di Battistello; oltreché, specialmente, di un suo allievo che, come anticipato, abbiamo cominciato a conoscere a partire dal 1991: il ‘Maestro di Fontanarosa’ alias, Giuseppe Di Guido (Expertise Stefano Causa) …”
In merito al suo stato conservativo, la tela versa in discreto stato conservativo. La superficie pittorica si presenta in patina. Si notano – a luce di Wood – piccoli restauri sparsi. Non sono presente, inoltre grande svelatura e ossidazione della superficie pittorica. A luce solare è visibile una craquelé rapportato all'epoca. Il dipinto – di buona mano pittorica – è molto interessante sia per la sua impostazione iconografica, sia per la stesura dei colori, sinonimo di un’artista di grande qualità interpretativa. Le misure della tela sono cm. 62 x 50. Il dipinto viene ceduto senza cornice, nonostante risulta impreziosita da una pregevole cornice in legno intagliato e dorato antico (?) di grande valore. L’opera verrà spedito – in quanto fragile – con cassa di legno e polistirolo.

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