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Vincenzo Irolli (1860–1949), attribuito a - La lavandaia
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Vincenzo Irolli (1860–1949), attribuito a - La lavandaia

Vincenzo Irolli (Napoli, 1860 – 1949) attribuito a “ La lavandaia ” Olio su tavola del 1940 Opera di uno dei principali maestri della pittura napoletana. Presente in musei nazionali ed esteri Ha un nonsoché di fatale la circostanza che Vincenzo Irolli si formasse artisticamente nell’Accademia di Belle Arti di Napoli (ove si iscrisse su consiglio del fratello maggiore Gennaro, impiegato presso lo studio di un pittore di immagini sacre) fra il 1877 ed il 1880, gli anni cioè delle due grandi esposizioni nazionali tenutesi a Napoli che determineranno in qualche modo la ribalta per tutte le scuole locali, fra le quali vanno assolutamente menzionate per primato cronologico le prime tendenze veriste a fare la propria comparsa nella scena artistica italiana. Proprio a questi più nuovi interessi del resto Irolli impronterà la primissima fase della sua assai prolifica produzione, mai abbandonata nella pratica sino alla fine dei suoi giorni, coi quali può forse considerarsi definitivamente chiusa (c’è ancora il destino di mezzo?) anche la lunga e ricca parabola della grande pittura napoletana del secondo Ottocento. La vita artistica di Irolli è stata incessantemente segnata da una sorta di dualismo, da due poli che in qualche modo hanno sempre esercitato (anche dopo la morte dell’autore) la propria forza sulla ricezione e quindi sul successo che egli ebbe presso il pubblico e la critica nell’età a lui contemporanea ed in quella successiva. Due innanzitutto furono i suoi modelli ispiratori, quel Domenico Morelli innovatore dell’arte napoletana a metà Ottocento prima ed in seguito Antonio Mancini, così ammirato da scatenare una lunga querelle storico-critica che è arrivata nel tempo ad avanzare accuse di vera e propria imitazione nei suoi confronti da parte di Irolli, in un aspro processo cui hanno posto in qualche modo fine solo il Siviero ed il Manzi alcuni anni dopo la morte dell’artista. Luigi Manzi in vero dovette fare i conti nella sua ampia monografia sull’Irolli anche con il secondo e forse più greve bipolarismo cui andò soggetta la produzione dell’artista, e cioè quel trattamento così differente ch’essa ricevette in Italia e all’estero; non a caso infatti Manzi scrisse: “L’arte sua piace comunque, educa. Ed io credo che ad un artista non si possa chiedere più di questo; anzi non si debba chiedere che questo. Se il pubblico non viene attratto, neppure il sipario s’alza, ed allora parli pure a vuoto l’arte e la sua critica, senza spettatori!”. Irolli infatti fin dagli anni Ottanta del diciannovesimo secolo espose alacremente all’infuori della Penisola (Monaco, Amburgo, Berlino, Londra e soprattutto Parigi), mietendo successi di pubblico e critica e, ad esser pratici, vendendo molto bene anche a grandi collezionisti; in Italia, invece, l’autore stentò a lungo ad affermarsi, complice una critica per lo più avversa che alla luce delle più innovatrici tendenze bollava la sua arte come compassata e banalmente piacevole, attenta insomma più che altro ad un commercio abbondante, sicuro e rapido. Invero non va trascurato in proposito il mantenimento di una vasta famiglia che pesò economicamente sulle spalle di Irolli per più decadi, obbligandolo appunto almeno ad affiancare alle sue opere più impegnate una produzione minore che assicurasse il pane a lui ed ai suoi cari. In definitiva solo in età fascista l’artista andò incontro ad una unanime consacrazione entro i confini italici: nel 1930 egli allestì la sua prima personale alla “Fiamma” di Roma, due anni dopo espose (con ottime vendite) a Bari e nel 1935 grande successo riscontrò alla “Dedalo” di Milano. Aveva ragione allora già cinquant’anni prima Giovanni Bovio, che scrivendo dell’amico Irolli affermò: “gli anni lo restituiranno tutto a se stesso”. Se il coronamento dell’arte sacra di Vincenzo Irolli fu con ogni probabilità la mostra del 1936 alla Sala della Minerva a Napoli (ove fu peraltro esposta un’altra, e certo più celebre, “Pesca miracolosa”), il tema biblico e cristologico permeò in vari momenti l’intera sua produzione. Risulta impossibile allora non operare un collegamento con l’arte del suo primo, illustre modello, ovvero Domenico Morelli, che circa cinquant’anni prima incentrò vari capolavori sulla figura di Cristo sotto l’influenza della “Vie de Jésus” di Joseph-Ernest Renan; a questa fase mistica corrispose in Morelli anche un mutamento dello stile, con una dissoluzione via via maggiore delle forme in sintetiche macchie di colore, e allora non è forse un caso che Irolli adottasse pennellate simili in questo grande acquerello. Comprovato è inoltre che il Morelli adoperò la tematica cristologica anche nei suoi primi anni di insegnamento presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli (determinando ad esempio le scelte tematiche del giovane Gaetano Esposito), nel periodo insomma in cui l’Irolli andò formandosi artisticamente. Misure: 58 x 59 cm in cornice / (44 x 45 cm) Opera in buone condizioni di conservazione, con normali segni del tempo. Collocata entro cornice in legno e oro del novecento. Con certificato di autenticità a norma di legge Proveniente da collezione privata La cornice mostrata nelle foto viene fornita senza costi aggiuntivi in modo che l’opera possa essere esposta non appena arriva. Essa viene inclusa a titolo di cortesia e non è considerata parte integrante dell’opera d’arte. Pertanto, qualsiasi potenziale danno alla cornice che non influisce sull’opera d’arte stessa non costituirà valido motivo per aprire un reclamo o richiedere l’annullamento dell’ordine.

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Vincenzo Irolli (1860–1949), attribuito a - La lavandaia

Vincenzo Irolli (1860–1949), attribuito a - La lavandaia

Vincenzo Irolli (Napoli, 1860 – 1949) attribuito a

“ La lavandaia ”

Olio su tavola

del 1940

Opera di uno dei principali maestri della pittura napoletana. Presente in musei nazionali ed esteri

Ha un nonsoché di fatale la circostanza che Vincenzo Irolli si formasse artisticamente nell’Accademia di Belle Arti di Napoli (ove si iscrisse su consiglio del fratello maggiore Gennaro, impiegato presso lo studio di un pittore di immagini sacre) fra il 1877 ed il 1880, gli anni cioè delle due grandi esposizioni nazionali tenutesi a Napoli che determineranno in qualche modo la ribalta per tutte le scuole locali, fra le quali vanno assolutamente menzionate per primato cronologico le prime tendenze veriste a fare la propria comparsa nella scena artistica italiana. Proprio a questi più nuovi interessi del resto Irolli impronterà la primissima fase della sua assai prolifica produzione, mai abbandonata nella pratica sino alla fine dei suoi giorni, coi quali può forse considerarsi definitivamente chiusa (c’è ancora il destino di mezzo?) anche la lunga e ricca parabola della grande pittura napoletana del secondo Ottocento.
La vita artistica di Irolli è stata incessantemente segnata da una sorta di dualismo, da due poli che in qualche modo hanno sempre esercitato (anche dopo la morte dell’autore) la propria forza sulla ricezione e quindi sul successo che egli ebbe presso il pubblico e la critica nell’età a lui contemporanea ed in quella successiva.
Due innanzitutto furono i suoi modelli ispiratori, quel Domenico Morelli innovatore dell’arte napoletana a metà Ottocento prima ed in seguito Antonio Mancini, così ammirato da scatenare una lunga querelle storico-critica che è arrivata nel tempo ad avanzare accuse di vera e propria imitazione nei suoi confronti da parte di Irolli, in un aspro processo cui hanno posto in qualche modo fine solo il Siviero ed il Manzi alcuni anni dopo la morte dell’artista.
Luigi Manzi in vero dovette fare i conti nella sua ampia monografia sull’Irolli anche con il secondo e forse più greve bipolarismo cui andò soggetta la produzione dell’artista, e cioè quel trattamento così differente ch’essa ricevette in Italia e all’estero; non a caso infatti Manzi scrisse: “L’arte sua piace comunque, educa. Ed io credo che ad un artista non si possa chiedere più di questo; anzi non si debba chiedere che questo. Se il pubblico non viene attratto, neppure il sipario s’alza, ed allora parli pure a vuoto l’arte e la sua critica, senza spettatori!”. Irolli infatti fin dagli anni Ottanta del diciannovesimo secolo espose alacremente all’infuori della Penisola (Monaco, Amburgo, Berlino, Londra e soprattutto Parigi), mietendo successi di pubblico e critica e, ad esser pratici, vendendo molto bene anche a grandi collezionisti; in Italia, invece, l’autore stentò a lungo ad affermarsi, complice una critica per lo più avversa che alla luce delle più innovatrici tendenze bollava la sua arte come compassata e banalmente piacevole, attenta insomma più che altro ad un commercio abbondante, sicuro e rapido. Invero non va trascurato in proposito il mantenimento di una vasta famiglia che pesò economicamente sulle spalle di Irolli per più decadi, obbligandolo appunto almeno ad affiancare alle sue opere più impegnate una produzione minore che assicurasse il pane a lui ed ai suoi cari. In definitiva solo in età fascista l’artista andò incontro ad una unanime consacrazione entro i confini italici: nel 1930 egli allestì la sua prima personale alla “Fiamma” di Roma, due anni dopo espose (con ottime vendite) a Bari e nel 1935 grande successo riscontrò alla “Dedalo” di Milano. Aveva ragione allora già cinquant’anni prima Giovanni Bovio, che scrivendo dell’amico Irolli affermò: “gli anni lo restituiranno tutto a se stesso”.


Se il coronamento dell’arte sacra di Vincenzo Irolli fu con ogni probabilità la mostra del 1936 alla Sala della Minerva a Napoli (ove fu peraltro esposta un’altra, e certo più celebre, “Pesca miracolosa”), il tema biblico e cristologico permeò in vari momenti l’intera sua produzione.
Risulta impossibile allora non operare un collegamento con l’arte del suo primo, illustre modello, ovvero Domenico Morelli, che circa cinquant’anni prima incentrò vari capolavori sulla figura di Cristo sotto l’influenza della “Vie de Jésus” di Joseph-Ernest Renan; a questa fase mistica corrispose in Morelli anche un mutamento dello stile, con una dissoluzione via via maggiore delle forme in sintetiche macchie di colore, e allora non è forse un caso che Irolli adottasse pennellate simili in questo grande acquerello. Comprovato è inoltre che il Morelli adoperò la tematica cristologica anche nei suoi primi anni di insegnamento presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli (determinando ad esempio le scelte tematiche del giovane Gaetano Esposito), nel periodo insomma in cui l’Irolli andò formandosi artisticamente.


Misure: 58 x 59 cm in cornice / (44 x 45 cm)

Opera in buone condizioni di conservazione, con normali segni del tempo. Collocata entro cornice in legno e oro del novecento.

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Proveniente da collezione privata


La cornice mostrata nelle foto viene fornita senza costi aggiuntivi in modo che l’opera possa essere esposta non appena arriva. Essa viene inclusa a titolo di cortesia e non è considerata parte integrante dell’opera d’arte. Pertanto, qualsiasi potenziale danno alla cornice che non influisce sull’opera d’arte stessa non costituirà valido motivo per aprire un reclamo o richiedere l’annullamento dell’ordine.




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