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Italia, Regno di Sicilia. Federico II (1198-1250). Multiplo di Tarì - zecca di Palermo o Messina
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Italia, Regno di Sicilia. Federico II (1198-1250). Multiplo di Tarì - zecca di Palermo o Messina

Federico II di Svevia, Re di Sicilia 1198-1250, Imperatore dal 1220. Multiplo di tarì, Palermo o Messina 1198-1220, AV 5,23 g. Dr. Legenda pseudo-cufica intorno a cerchio lineare; all’interno, FЄ Rv. Legenda pseudo-cufica intorno a cerchio lineare; all’interno, IC – XC / NI – KA ai lati di lunga croce astile. Spahr 59. MEC 14, 493. MIR tipo 75 (Messina). Friedberg 648a. Moneta di estrema rarità considerando l'elevato peso che la caratterizza. EX Asta NUMISMATICA Ars Classica NAC AG In occasione del 700° anniversario della morte di Dante (1265-1321), Catawiki dedica al Sommo Poeta un'asta incentrata sulle monete del suo tempo e su quelle legate ai personaggi della sua Divina Commedia. #dante700memorial DANTE E FEDERICO II A segnalare a D. la presenza di Federico II nell'inferno è Farinata degli Uberti, incontrato nel sesto cerchio, una pianura disseminata di arche sepolcrali scoperchiate in attesa del giorno del giudizio e affocate da fiamme che vi ardono intorno. Lì si trovano, gli spiega Virgilio, gli iniziatori dei movimenti ereticali con i loro seguaci (Inf. IX, 124-131): probabilmente la pena degli eretici è ricalcata da D. su quella del rogo prevista da Federico II in due sue costituzioni. Il reparto del sepolcreto verso cui D. è condotto è riservato a Epicuro e a "tutt'i suoi seguaci / che l'anima col corpo morta fanno" (Inf. X, 13-15). È ad una di queste arche che si affaccia Farinata, di cui D. aveva poco prima espresso il desiderio di fare conoscenza (vv. 6-9 e 16-18; cf. VI, 79-87). Quando D. prega Farinata di dirgli "chi con lu' istava", questi risponde: "qua dentro è 'l secondo Federico / e 'l Cardinale [Ottaviano degli Ubaldini]; e de li altri mi taccio" (vv. 116-120). Le parole di Farinata turbano D., poiché contengono un oscuro presagio sulla prima fase (fino al 1304) del suo esilio (vv. 79-81) e la notizia della presenza di Federico II passa perciò inevitabilmente in secondo piano. Federico, dunque, all'inferno perché eretico epicureo. Dei quattro sepolti nella medesima tomba ‒ Farinata e i due nominati da lui, nonché Cavalcante dei Cavalcanti, che dialoga anch'egli con D. (vv. 57-72) ‒ i primi tre appartengono alla pars imperii e l'ultimo alla pars ecclesie. Se la particolare eresia imputata qui allo Svevo non fosse sufficiente a sgombrare il terreno dalla tesi di un nesso organico fra ghibellinismo e patarinismo (così si definiva allora a Firenze l'eresia in genere), a contraddirla basta la presenza di un guelfo fra i quattro eretici chiamati per nome. Farinata è anche uno dei cinque fiorentini, "che fuor sì degni" e "a ben far puoser li ingegni", di cui D. chiede a Ciacco dove si trovino (Inf. VI, 79-87). "Degni", in quanto si erano segnalati sotto il profilo del "ben far", cioè della vita attiva, e tale su questo piano ‒ anzi più che degno, visto che egli e suo figlio Manfredi sono detti heroes illustres ‒ è anche Federico II nel De vulgari eloquentia (I, xii, 4). I due, infatti, "seppero esprimere tutta la nobiltà e dirittura del loro spirito, e finché la fortuna lo permise si comportarono da veri uomini, sdegnando di vivere da bestie", col risultato che la reggia siciliana era divenuta il punto di riferimento e di raccolta degli uomini di lettere italiani corde nobiles atque gratiarum dotati. A questo elogio dell'aula siculo-federiciana nulla toglie la denuncia, che D. pone in bocca a Pier della Vigna (Inf. XIII, 58-78), del "vizio" dell'invidia, diffuso ovunque ma in particolare nelle corti e, quindi, anche in quella siciliana, che ha indotto al suicidio lui, che era stato il collaboratore più vicino a Federico. Egli però non parla per denigrare l'istituzione ove aveva operato con soddisfazione, ma per togliere il sospetto che ancora aleggiava ch'egli avesse tradito il suo imperatore. In un evento, ricordato a D. da Farinata, avevano avuto una parte di primo piano Federico II e suo figlio Federico d'Antiochia (v.). Al capoparte ghibellino, che, per prima cosa, gli chiede "'Chi fuor li maggior tui?'" (Inf. X, 42), non per la curiosità di conoscere i suoi natali, ma per l'ansia faziosa di venire ragguagliato circa la parte cui avevano appartenuto, l'interpellato risponde senza esitazione che erano stati di parte guelfa. Fieri avversari, dunque ‒ replica Farinata ‒, di lui stesso, dei suoi primi e della sua parte, tanto è vero che li costrinse ad andare due volte in esilio: nel 1248 e nel 1260. Nel 1248 a decidere le sorti di una battaglia, combattuta in Firenze fra guelfi e ghibellini, era stato l'imperatore che mandò il figlio con seicento cavalieri tedeschi in rinforzo a questi ultimi (Giovanni Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, I, Parma 1990, pp. 317 s.). Se D. colloca Federico II all'inferno è anche per un riflesso innato della sua memoria familiare, pur se non risulta chiaro quanti degli Alighieri siano stati in esilio dopo il 1248 e il 1260.

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Federico II di Svevia, Re di Sicilia 1198-1250, Imperatore dal 1220.
Multiplo di tarì, Palermo o Messina 1198-1220, AV 5,23 g.
Dr. Legenda pseudo-cufica intorno a cerchio lineare; all’interno, FЄ
Rv. Legenda pseudo-cufica intorno a cerchio lineare; all’interno, IC – XC / NI – KA ai lati di lunga croce astile.
Spahr 59. MEC 14, 493. MIR tipo 75 (Messina). Friedberg 648a.
Moneta di estrema rarità considerando l'elevato peso che la caratterizza.
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In occasione del 700° anniversario della morte di Dante (1265-1321), Catawiki dedica al Sommo Poeta un'asta incentrata sulle monete del suo tempo e su quelle legate ai personaggi della sua Divina Commedia.
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DANTE E FEDERICO II

A segnalare a D. la presenza di Federico II nell'inferno è Farinata degli Uberti, incontrato nel sesto cerchio, una pianura disseminata di arche sepolcrali scoperchiate in attesa del giorno del giudizio e affocate da fiamme che vi ardono intorno. Lì si trovano, gli spiega Virgilio, gli iniziatori dei movimenti ereticali con i loro seguaci (Inf. IX, 124-131): probabilmente la pena degli eretici è ricalcata da D. su quella del rogo prevista da Federico II in due sue costituzioni. Il reparto del sepolcreto verso cui D. è condotto è riservato a Epicuro e a "tutt'i suoi seguaci / che l'anima col corpo morta fanno" (Inf. X, 13-15). È ad una di queste arche che si affaccia Farinata, di cui D. aveva poco prima espresso il desiderio di fare conoscenza (vv. 6-9 e 16-18; cf. VI, 79-87). Quando D. prega Farinata di dirgli "chi con lu' istava", questi risponde: "qua dentro è 'l secondo Federico / e 'l Cardinale [Ottaviano degli Ubaldini]; e de li altri mi taccio" (vv. 116-120). Le parole di Farinata turbano D., poiché contengono un oscuro presagio sulla prima fase (fino al 1304) del suo esilio (vv. 79-81) e la notizia della presenza di Federico II passa perciò inevitabilmente in secondo piano.

Federico, dunque, all'inferno perché eretico epicureo. Dei quattro sepolti nella medesima tomba ‒ Farinata e i due nominati da lui, nonché Cavalcante dei Cavalcanti, che dialoga anch'egli con D. (vv. 57-72) ‒ i primi tre appartengono alla pars imperii e l'ultimo alla pars ecclesie. Se la particolare eresia imputata qui allo Svevo non fosse sufficiente a sgombrare il terreno dalla tesi di un nesso organico fra ghibellinismo e patarinismo (così si definiva allora a Firenze l'eresia in genere), a contraddirla basta la presenza di un guelfo fra i quattro eretici chiamati per nome. Farinata è anche uno dei cinque fiorentini, "che fuor sì degni" e "a ben far puoser li ingegni", di cui D. chiede a Ciacco dove si trovino (Inf. VI, 79-87). "Degni", in quanto si erano segnalati sotto il profilo del "ben far", cioè della vita attiva, e tale su questo piano ‒ anzi più che degno, visto che egli e suo figlio Manfredi sono detti heroes illustres ‒ è anche Federico II nel De vulgari eloquentia (I, xii, 4). I due, infatti, "seppero esprimere tutta la nobiltà e dirittura del loro spirito, e finché la fortuna lo permise si comportarono da veri uomini, sdegnando di vivere da bestie", col risultato che la reggia siciliana era divenuta il punto di riferimento e di raccolta degli uomini di lettere italiani corde nobiles atque gratiarum dotati. A questo elogio dell'aula siculo-federiciana nulla toglie la denuncia, che D. pone in bocca a Pier della Vigna (Inf. XIII, 58-78), del "vizio" dell'invidia, diffuso ovunque ma in particolare nelle corti e, quindi, anche in quella siciliana, che ha indotto al suicidio lui, che era stato il collaboratore più vicino a Federico. Egli però non parla per denigrare l'istituzione ove aveva operato con soddisfazione, ma per togliere il sospetto che ancora aleggiava ch'egli avesse tradito il suo imperatore.

In un evento, ricordato a D. da Farinata, avevano avuto una parte di primo piano Federico II e suo figlio Federico d'Antiochia (v.). Al capoparte ghibellino, che, per prima cosa, gli chiede "'Chi fuor li maggior tui?'" (Inf. X, 42), non per la curiosità di conoscere i suoi natali, ma per l'ansia faziosa di venire ragguagliato circa la parte cui avevano appartenuto, l'interpellato risponde senza esitazione che erano stati di parte guelfa. Fieri avversari, dunque ‒ replica Farinata ‒, di lui stesso, dei suoi primi e della sua parte, tanto è vero che li costrinse ad andare due volte in esilio: nel 1248 e nel 1260. Nel 1248 a decidere le sorti di una battaglia, combattuta in Firenze fra guelfi e ghibellini, era stato l'imperatore che mandò il figlio con seicento cavalieri tedeschi in rinforzo a questi ultimi (Giovanni Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, I, Parma 1990, pp. 317 s.). Se D. colloca Federico II all'inferno è anche per un riflesso innato della sua memoria familiare, pur se non risulta chiaro quanti degli Alighieri siano stati in esilio dopo il 1248 e il 1260.

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