Dante Alighieri - La Divina Commedia - 1983





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Dante Alighieri, Divina commedia. Milano, Edizione Paoline, 1983. Legatura in similpelle con impressioni e fregi in oro, astuccio, pagine 461. Miniature a colori tratte dal Manoscritto Urbinate Latino 365 della Biblioteca Apostolica Vaticana. In ottimo stato - un piccolo strappetto marginale alla prima pagina senza perdita di carta. Senza riserva!
Dante urbinate, manoscritto in formato atlantico confezionato con pergamena di alta qualità, è tra i capolavori della collezione di Federico da Montefeltro. L’articolato e complesso apparato decorativo e illustrativo è stato, già in tempi molto precoci, stimolo al dibattito storiografico. Fu Adolfo Venturi (in Franciosi, Il Dante Vaticano, pp. 123-124 e nt. 9) che per primo indicò in Guglielmo Giraldi l’autore delle miniature a commento della Commedia (cfr. qui per la questione relativa alla presenza dei maestri padano-ferraresi a Urbino e per il loro legame con Matteo Contugi, copista del codice). Un’attribuzione ancora oggi valida – seppure con tutta una serie di sfumature, cfr. oltre – e che non è mai stata messa in discussione (cfr. tra gli altri Hermann, La miniatura estense, passim; Hermanin, Le miniature ferraresi, pp. 341-373; D’Ancona, La miniatura, pp. 353-361; Bonicatti, Aspetti dell’illustrazione, pp. 107-149; Bonicatti, Contributo al Giraldi, pp. 195-210; Levi D’Ancona, Contributi al problema, pp. 33-45; Luigi Michelini Tocci in Il Dante Urbinate, commentario all’edizione facsimilare del 1965 che qui si utilizza per la decodifica e le attribuzioni delle immagini all’interno delle annotazioni). Se Venturi si concentrò soprattutto su Giraldi, Federico Hermanin si pose il problema della presenza di collaboratori al lavoro al fianco del maestro e tentò di mettere a fuoco la figura di Alessandro Leoni, nipote di Giraldi stesso e attestato con lui nell’esecuzione di manoscritti per i Gonzaga; lo studioso individuò inoltre altre due mani, che indicò come quella del Violaceo I e del Violaceo II (Hermanin, Le miniature ferraresi, pp. 341-373), a testimonianza della complessità del manoscritto.
Sin dagli albori del Novecento si è inoltre fatta strada l’ipotesi – ancora oggi valida, cfr. oltre – che alcune delle miniature tabellari negli ultimi canti dell’Inferno e la maggior parte di quelle che illustrano il Purgatorio non dovessero essere attribuite alla bottega di Giraldi, bensì a un secondo gruppo di artisti che, ancora una volta Hermanin, riuniva attorno a quel «magistro Franco da Ferara» – vale a dire Franco dei Russi – unico registrato tra i «maestri miniadori de libri» nella Memoria felicissima delo Illustrissimo Duca Federico Duca de Urbino compilata dal cortegiano Susech (Urb. lat. 1204, f. 102r; è una vera e propria lista del personale al servizio nella corte feltresca durante gli anni del regno di Federico). Lo studioso suggeriva un’ipotesi per l’avvicendarsi delle due botteghe: la circostanza cioè che Franco fosse stanziale a Urbino, a differenza di Giraldi che continuava invece a lavorare anche a Ferrara (Hermanin, Le miniature ferraresi, pp. 341-373, egli fu successivamente smentito da un documento epistolare, cfr. oltre; un proposta confutata anche da Paolo D’Ancona, La miniatura, p. 354). Nella scia di Hermanin si pose Alberto Serafini, il primo a individuare l’ormai celebre frammento con il Trionfo di dotto della British Library di Londra, firmato «Dii faveant / opus Franchi miniatoris» (Add. 20916), che lo studioso mise in relazione proprio con un esemplare della collezione urbinate, l'Urb. lat. 336 (le Epistolae di Libanio, databile agli anni del ducato di Federico) che gli suggerì di dare più rilievo alla presenza a Urbino di Franco piuttosto che a quella di Giraldi (Serafini, Ricerche, pp. 420-422). L’idea della diversa rilevanza dei due miniatori è al centro della riflessione di Maurizio Bonicatti, che ancora una volta sottolineava l’importanza di Giraldi, coadiuvato nell’impresa soprattutto da Alessandro Leoni, sia nell’Inferno sia nei primi fogli della seconda cantica. Lo studioso rifiutava sostanzialmente la possibilità di un intervento di Franco dei Russi e assegnava la campagna di decorazione ‘non giraldiana’ a colui che denominava Secondo maestro, a sua volta a capo di un’équipe (Bonicatti, Contributo al Giraldi, pp. 195-210; Bonicatti, Nuovo contributo, pp. 259-264). Alla metà degli anni ’50 Bonicatti e, contestualmente ma in maniera separata, Gino Franceschini pubblicarono una importante lettera che permise di mettere a fuoco un punto fondamentale della vicenda (smentendo nei fatti la posizione di Hermanin, cfr. supra). Datata al 1480, in essa Federico da Montefeltro scriveva a Ludovico Gonzaga, duca di Ferrara, che avrebbe inviato in città «messer Guglielmo servitore de Vostra Signoria et mio miniatore» per copiare alcuni volumi (Bonicatti, Contributo al Giraldi, p. 195; Franceschini, Figure del Rinascimento, p. 144); Bonicatti ne dedusse quindi che il Secondo maestro fosse subentrato a Giraldi a causa della morte di quest’ultimo. La pubblicazione della lettera aprì quindi a tutta una serie di ipotesi: Mirella Levi D’Ancona, che offrì una serie di puntualizzazioni sull’attribuzione delle miniature, suggeriva che la partenza di Giraldi per Ferrara avesse indotto Federico a investire Franco del compito di portare a termine il lavoro sulla Commedia (Levi D’Ancona, Contributi al problema, pp. 42-43). Luigi Michelini Tocci assegnava infine il lavoro a due diverse équipe, la prima da ricondurre a Guglielmo Giraldi e la seconda a Franco dei Russi, in un avvicendamento dovuto forse all’eccessiva lentezza di Giraldi (Il Dante Urbinate, passim), per poi interrompersi definitivamente con la morte di Federico stesso (1482). Una posizione ancora oggi valida nelle sue premesse e che ha fornito una solida base per ulteriori e più articolate riflessioni. In anni recenti, infatti, Giordana Mariani Canova si è diffusamente concentrata sul Dante urbinate, soprattutto nei suoi studi dedicati a Guglielmo Giraldi, al quale suggerisce di affidare, insieme alla sua bottega, l’intero apparato illustrativo dell’Inferno e il frontespizio e le prime due miniature tabellari del Purgatorio. La campagna di illustrazione della seconda cantica è quindi proseguita da Franco dei Russi e dalla propria équipe (Mariani Canova, Guglielmo Giraldi 1995, passim); la studiosa sottolinea a tal proposito che i due maestri avessero già collaborato alla realizzazione di uno dei volumi della Bibbia della Certosa di San Cristoforo a Ferrara, impresa alla quale partecipa molto probabilmente anche Alessandro Leoni (cfr. Modena, Biblioteca Estense Universitaria, alfa Q.4.9 = Lat. 990, Salterio sottoscritto «per magistrum Gulielmum civem ferrariensem et Alexandrum eius nepotem»; Mariani Canova, Guglielmo Giraldi 1995, passim). L’allestimento del Dante per Federico da Montefeltro si interruppe probabilmente con la morte di questi nel 1482: la scomparsa del committente arrestò il lavoro, completato solo per la prima cantica e per parte del Purgatorio.
Una seconda campagna decorativa fu quindi avviata nel Seicento, per volontà di Francesco Maria II Della Rovere (1549-1631), quando il miniatore Valerio Mariani fu incaricato di concludere il lavoro sospeso dai maestri padano-ferraresi e portò così a termine, intervenendo negli spazi riservati già predisposti, il Purgatorio ed eseguì ex novo il ciclo del Paradiso.
In un primo tempo il responsabile di questa seconda fase di decorazione fu indicato in Giulio Clovio, attribuzione confutata a ragione da Luigi Michelini Tocci, grazie a documenti d’archivio e attraverso il confronto tra l’Urb. lat. 365 e quanto visibile negli Urb. lat. 1765, Historia de’ fatti di Federico di Montefeltro, e Urb. lat. 1764, Vita di Francesco Maria I della Rovere (Michelini Tocci, Introduzione, pp. 63-64). Silvia Meloni Trkulja, ai primissimi anni ’80 del Novecento, confermò tale attribuzione in seguito al ritrovamento agli Uffizi di Firenze di un foglio illustrato con la Battaglia di San Fabiano e firmato proprio da Valerio Mariani di Pesaro (Meloni Trkulja, I miniatori di Francesco Maria, pp. 33-38; Ead., Scheda nr. 384, p. 204). Nel medesimo solco si collocano gli studi di Erma Hermens che, tra le altre cose, proponeva la presenza di un collaboratore ad affiancare il maestro nell’impresa (Hermens, Valerio Mariani, pp. 93-102; posizione condivisa anche da Helena Szépe, Mariani, Valerio, pp. 723-727).
Nato come manufatto di apparato per soddisfare le esigenze di completezza della raccolta libraria federiciana, nel suo completamento seicentesco l’Urb. lat. 365 è anche un peculiare esempio di ‘recupero dell’antico’, dove l’antico non è più quello classico, ma quello umanistico-rinascimentale, senza dubbio venato da una volontà di autolegittimazione del potere da parte del nuovo possessore, quel Federico Maria II Della Rovere, ultimo duca di Urbino.
Dante Alighieri, o Alighiero, battezzato Durante di Alighiero degli Alighieri e anche noto con il solo nome di Dante, della famiglia Alighieri (Firenze, tra il 14 maggio e il 13 giugno 1265 – Ravenna, notte tra il 13 e il 14 settembre[1][2][3] 1321), è stato un poeta, scrittore e politico italiano.
Il nome "Dante", secondo la testimonianza di Jacopo Alighieri, è un ipocoristico di Durante[N 1]; nei documenti era seguito dal patronimico Alagherii o dal gentilizio de Alagheriis, mentre la variante "Alighieri" si affermò solo con l'avvento di Boccaccio.
Viene considerato il padre della lingua italiana; la sua fama è dovuta alla paternità della Comedìa, divenuta celebre come Divina Commedia e universalmente considerata la più grande opera scritta in lingua italiana e uno dei maggiori capolavori della letteratura mondiale[4]. Espressione della cultura medievale, filtrata attraverso la lirica del Dolce stil novo, la Commedia è anche veicolo allegorico della salvezza umana, che si concretizza nel toccare i drammi dei dannati, le pene purgatoriali e le glorie celesti, permettendo a Dante di offrire al lettore uno spaccato di morale ed etica.
Importante linguista, teorico politico e filosofo, Dante spaziò all'interno dello scibile umano, segnando profondamente la letteratura italiana dei secoli successivi e la stessa cultura occidentale, tanto da essere soprannominato il "Sommo Poeta" o, per antonomasia, il "Poeta"[5]. Dante, le cui spoglie si trovano a Ravenna nella tomba costruita nel 1780 da Camillo Morigia, in epoca romantica divenne il principale simbolo dell'identità nazionale italiana[6]. Da lui prende il nome il principale ente della diffusione della lingua italiana nel mondo, la Società Dante Alighieri[7], mentre gli studi critici e filologici sono mantenuti vivi dalla Società dantesca.
Biografia
Stemma Alighieri
Le origini
La data di nascita e il mito di Boccaccio
Casa di Dante a Firenze
La data di nascita di Dante non è conosciuta con esattezza, anche se solitamente viene indicata attorno al 1265. Tale datazione è ricavata sulla base di alcune allusioni autobiografiche riportate nella Vita Nova e nella cantica dell'Inferno, che comincia con il celeberrimo verso Nel mezzo del cammin di nostra vita. Postulando le ipotesi, infatti, che la metà della vita dell'uomo sia, per Dante, il trentacinquesimo anno di vita[8][9] e che il viaggio immaginario fosse avvenuto nel 1300, allora si risalirebbe di conseguenza al 1265. Oltre alle elucubrazioni dei critici, viene in supporto di tale ipotesi un contemporaneo di Dante, lo storico fiorentino Giovanni Villani il quale, nella sua Nova Cronica, riporta che «questo Dante morì in esilio del comune di Firenze in età di circa 56 anni»[10]: una prova che confermerebbe tale idea. Altra testimonianza è riportata da Giovanni Boccaccio che, nelle sue ricerche sulla vita dell'amato Dante, conobbe a Ravenna ser Piero di messer Giardino da Ravenna, amico di Dante durante l'esilio di quest'ultimo nella città romagnola: il poeta avrebbe raccontato a Piero poco prima di spirare di aver compiuto 56 anni nel mese di maggio[11]. Alcuni versi del Paradiso suggeriscono inoltre che egli nacque sotto il segno dei Gemelli, quindi in un periodo compreso fra il 14 maggio e il 13 giugno[12].
Tuttavia, se sconosciuto è il giorno della sua nascita, certo invece è quello del battesimo: il 27 marzo 1266, di Sabato santo[13][14]. Quel giorno vennero portati al sacro fonte tutti i nati dell'anno per una solenne cerimonia collettiva. Dante venne battezzato con il nome di Durante, poi sincopato in Dante[15], in ricordo di un parente ghibellino[16]. Pregna di rimandi classici è la leggenda narrata da Giovanni Boccaccio ne Il Trattatello in laude di Dante riguardo alla nascita del poeta: secondo Boccaccio, la madre di Dante, poco prima di darlo alla luce, ebbe una visione e sognò di trovarsi sotto un alloro altissimo, in mezzo a un vasto prato con una sorgente zampillante insieme al piccolo Dante appena partorito e di vedere il bimbo tendere la piccola mano verso le fronde, mangiare le bacche e trasformarsi in un magnifico pavone[17][18].
La famiglia paterna e materna
Lo stesso argomento in dettaglio: Alighieri.
Luca Signorelli, Dante, affresco, 1499-1502, particolare tratto dalle Storie degli ultimi giorni, cappella di San Brizio, Duomo di Orvieto
Dante apparteneva agli Alighieri, una famiglia di secondaria importanza all'interno dell'élite sociale fiorentina che, negli ultimi due secoli, aveva raggiunto una certa agiatezza economica. Benché Dante affermi che la sua famiglia discendesse dagli antichi Romani[19], il parente più lontano di cui egli fa nome è il trisavolo Cacciaguida degli Elisei[20], fiorentino vissuto intorno al 1100 e cavaliere nella seconda crociata al seguito dell'imperatore Corrado III[21].
Come sottolinea Arnaldo D'Addario sull'Enciclopedia dantesca, la famiglia degli Alighieri (che prese tale nominativo dalla famiglia della moglie di Cacciaguida[21]) e che risultava abitare nel sesto di Porta San Piero[22], passò da uno status nobiliare meritocratico[23] a uno borghese agiato, ma meno prestigioso sul piano sociale[24][N 2]. Il nonno paterno di Dante, Bellincione, era infatti un popolano e un popolano sposò la sorella di Dante[18]. Il figlio di Bellincione (e padre di Dante), Aleghiero o Alighiero di Bellincione, svolgeva la professione di compsor (cambiavalute), con la quale riuscì a procurare un dignitoso decoro alla numerosa famiglia[25][26]. Grazie alla scoperta di due pergamene conservate nell’Archivio Diocesano di Lucca, però, si viene a sapere che il padre di Dante avrebbe fatto anche l'usuraio (dando adito alla Tenzone tra l'Alighieri e l'amico Forese Donati[27]), traendo degli arricchimenti tramite la sua posizione di procuratore giudiziale presso il tribunale di Firenze[28]. Era inoltre un guelfo, ma senza ambizioni politiche: per questo i ghibellini non lo esiliarono dopo la battaglia di Montaperti, come fecero con altri guelfi, giudicandolo un avversario non pericoloso[18].
La madre di Dante si chiamava Bella degli Abati[N 3], figlia di Durante Scolaro[29] (è probabile che i genitori di Dante abbiano dato al figlio il nome del nonno[30]) e appartenente a un'importante famiglia ghibellina locale[18]. Il figlio Dante non la citerà mai tra i suoi scritti, col risultato che di lei possediamo pochissime notizie biografiche. Bella morì quando Dante aveva cinque o sei anni e Alighiero, che probabilmente aveva già quarant'anni quando Dante nacque[31] e che morì in base alle fonti nel 1282-1283[32], presto si risposò, forse tra il 1275 e il 1278[33], con Lapa di Chiarissimo Cialuffi. Da questo matrimonio nacquero Francesco e Tana Alighieri (Gaetana)[34] e forse anche – ma potrebbe essere stata anche figlia di Bella degli Abati – un'altra figlia ricordata dal Boccaccio come moglie del banditore fiorentino Leone Poggi e madre di Andrea Poggi[33] il quale, secondo la testimonianza sempre di Boccaccio, assomigliava in modo impressionante allo zio Dante[35]. Si ritiene che Dante alluda alla sorella dal nome ignoto in Vita nuova (Vita nova) XXIII, 11-12, chiamandola «donna giovane e gentile [...] di propinquissima sanguinitade congiunta»[33].
La formazione intellettuale
I primi studi e Brunetto Latini
Codice miniato raffigurante Brunetto Latini, Biblioteca Medicea-Laurenziana, Plut. 42.19, Brunetto Latino, Il Tesoro, fol. 72, secoli XIII-XIV
Della formazione di Dante non si conosce molto[36]. Con ogni probabilità seguì l'iter educativo proprio dell'epoca, che si basava sulla formazione presso un grammatico (conosciuto anche con il nome di doctor puerorum, probabilmente) con il quale apprendere prima i rudimenti linguistici, per poi approdare allo studio delle arti liberali, pilastro dell'educazione medioevale[37][38]: aritmetica, geometria, musica, astronomia da un lato (quadrivio); dialettica, grammatica e retorica dall'altro (trivio). Come si può dedurre da Convivio II, 12, 2-4, l'importanza del latino quale veicolo del sapere era fondamentale per la formazione dello studente, in quanto la ratio studiorum si basava essenzialmente sulla lettura di Cicerone e di Virgilio da un lato e del latino medievale dall'altro (Arrigo da Settimello, in particolare)[39].
L'educazione ufficiale era poi accompagnata dai contatti "informali" con gli stimoli culturali provenienti ora da altolocati ambienti cittadini, ora dal contatto diretto con viaggiatori e mercanti stranieri che importavano, in Toscana, le novità filosofiche e letterarie dei rispettivi Paesi d'origine[39]. Dante ebbe la fortuna di incontrare, negli anni ottanta, il politico ed erudito fiorentino Ser Brunetto Latini, reduce da un lungo soggiorno in Francia sia come ambasciatore della Repubblica, sia come esiliato politico[40]. L'effettiva influenza di Ser Brunetto sul giovane Dante è stata oggetto di studio da parte di Francesco Mazzoni[41] prima, e di Giorgio Inglese poi[42]. Entrambi i filologi, nei loro studi, cercarono di inquadrare l'eredità dell'autore del Tresor sulla formazione intellettuale del giovane concittadino. Dante, da parte sua, ricordò commosso la figura del Latini nella Commedia, rimarcandone l'umanità e l'affetto ricevuto:
«[...] e or m'accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m'insegnavate come l'uom s'etterna [...]»
(Inferno, Canto XV, vv. 82-85)
La basilica di Santa Maria Novella a Firenze, dove Dante studiò filosofia oltreché teologia.
Da questi versi, Dante espresse chiaramente l'apprezzamento di una letteratura intesa nel suo senso "civico"[37][43], nell'accezione di utilità civica. La comunità in cui vive il poeta, infatti, ne serberà il ricordo anche dopo la morte di quest'ultimo. Umberto Bosco e Giovanni Reggio, inoltre, rimarcano l'analogia tra il messaggio dantesco e quello manifestato da Brunetto nel Tresor, come si evince dalla volgarizzazione toscana dell'opera realizzata da Bono Giamboni[44].
Lo studio della filosofia
«E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella [la Donna Gentile] si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero.»
(Convivio, [[s:Convivio/Trattato secondo#Capitolo 12 verso 1|II,|12 7]])
Dante, all'indomani della morte dell'amata Beatrice (in un periodo oscillante tra il 1291 e il 1294/1295)[45], cominciò a raffinare la propria cultura filosofica frequentando le scuole organizzate dai domenicani di Santa Maria Novella e dai francescani di Santa Croce[46]; se gli ultimi erano ereditari del pensiero di Bonaventura da Bagnoregio, i primi erano ereditari della lezione aristotelico-tomista di Tommaso d'Aquino, permettendo a Dante di approfondire (forse grazie all'ascolto diretto del celebre studioso Fra' Remigio de' Girolami)[47] il Filosofo per eccellenza della cultura medievale[48]. Enrico Malato sottolinea però come presso la chiesa di Santa Maria Novella, più che la filosofia, si insegnasse la teologia tomista, motivo per cui si deve credere che Dante in quegli anni non si erudì solo di filosofia, ma anche di teologia[49]. Inoltre, la lettura dei commenti di intellettuali che si opponevano all'interpretazione tomista (quali l'arabo Averroè), permise a Dante di adottare una sensibilità «polifonica dell'aristotelismo»[50].
I presunti legami con Bologna e Parigi
Giorgio Vasari, Sei poeti toscani (da destra: Cavalcanti, Dante, Boccaccio, Petrarca, Cino da Pistoia e Guittone d'Arezzo), pittura a olio, 1544, conservata presso il Minneapolis Institute of Art, Minneapolis. Considerato uno dei maggiori lirici volgari del XIII secolo, Cavalcanti fu la guida e il primo interlocutore poetico di Dante, quest'ultimo poco più giovane di lui.
Alcuni critici ritengono che Dante abbia soggiornato a Bologna[51]. Anche Giulio Ferroni ritiene certa la presenza di Dante nella città felsinea: «un memoriale bolognese del notaio Enrichetto delle Querce attesta (in una forma linguistica locale) il sonetto Non mi poriano già mai fare ammenda: la circostanza viene considerata indizio pressoché certo di una presenza di Dante a Bologna anteriore a questa data»[52]. Entrambi ritengono che Dante abbia studiato presso l'Università di Bologna, ma non vi sono prove in proposito[53].
Invece è molto probabile che Dante soggiornasse a Bologna tra l'estate del 1286 e quella del 1287[54], dove conobbe Bartolomeo da Bologna[55], alla cui interpretazione teologica dell'Empireo Dante in parte aderisce. Riguardo al soggiorno parigino, ci sono invece parecchi dubbi: in un passo del Paradiso, (Che, leggendo nel Vico de li Strami, silogizzò invidïosi veri)[56], Dante alluderebbe alla Rue du Fouarre, dove si svolgevano le lezioni della Sorbona. Questo ha fatto pensare a qualche commentatore, in modo puramente congetturale, che Dante possa essersi realmente recato a Parigi tra il 1309 e il 1310[57][58]. Come riassume Alessandro Barbero, la formazione intellettuale di Dante doveva essersi svolta pressappoco secondo questo iter:
«Il probabile percorso degli studi di Dante si presenta dunque più o meno così. Un primo maestro, un doctor puerorum, assunto a contratto dalla famiglia, gli insegnò prima a leggere e poi a scrivere, e contemporaneamente lo introdusse ai primi rudimenti della lingua latina [...] Successivamente un altro maestro, un doctor gramatice, gli avrà impartito un insegnamento più avanzato del latino, e gli elementi di base delle altre arti liberali. Durante l'adolescenza, Brunetto Latini gli insegnò l'arte dell'epistolografia, l'ars dictaminis [...] Poi, inotrno ai vent'anni, Dante - orfano di padre, ripetiamolo, e dunque padrone della propria vita - andò a Bologna a perfezionarsi frequentando la facoltà di arti, e approfondendo ulteriormente la retorica. Divenne così, come scriverà Giovanni Villani, "rettorico perfetto tanto in dittare, versificare, come in aringa parlare": padrone, cioè di tutti i mezzi espressivi, dalla poesia al discorso politico.»
(Barbero, p. 91)
La lirica volgare. Dante e l'incontro con Cavalcanti
Lo stesso argomento in dettaglio: Dolce stil novo.
Ritratto immaginario di Guido Cavalcanti, tratta dall'edizione delle Rime del 1813.
Dante ebbe inoltre modo di partecipare alla vivace cultura letteraria ruotante intorno alla lirica volgare. Negli anni sessanta del XIII secolo, in Toscana giunsero i primi influssi della "Scuola siciliana", movimento poetico sorto intorno alla corte di Federico II di Svevia e che rielaborò le tematiche amorose della lirica provenzale. I letterati toscani, subendo gli influssi delle liriche di Giacomo da Lentini e di Guido delle Colonne, svilupparono una lirica orientata sia verso l'amor cortese, ma anche verso la politica e l'impegno civile[59]. Guittone d'Arezzo e Bonaggiunta Orbicciani, vale a dire i principali esponenti della cosiddetta scuola siculo-toscana, ebbero un seguace nella figura del fiorentino Chiaro Davanzati[60], il quale importò il nuovo codice poetico all'interno delle mura della sua città. Fu proprio a Firenze, però, che alcuni giovani poeti (capeggiati dal nobile Guido Cavalcanti) espressero il loro dissenso nei confronti della complessità stilistica e linguistica dei siculo-toscani, propugnando al contrario una lirica più dolce e soave: il dolce stil novo[61].
Dante si trovò nel pieno di questo dibattito letterario: nelle sue prime opere è evidente il legame (seppur tenue)[62] sia con la poesia toscana di Guittone e di Bonagiunta[63], sia con quella più schiettamente occitana[64]. Presto, però, il giovane si legò ai dettami della poetica stilnovista, cambiamento favorito dall'amicizia che lo legava al più anziano Cavalcanti[65].
Il matrimonio con Gemma Donati
Quando Dante aveva dodici anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di vent'anni nel 1285[37][66]. Decidere matrimoni in età così precoce era abbastanza comune a quell'epoca; lo si faceva con una cerimonia importante, che richiedeva atti formali sottoscritti davanti a un notaio. La famiglia a cui Gemma apparteneva – i Donati – era una delle più importanti nella Firenze tardo-medievale (al contrario degli Alighieri era di rango magnatizio[67]) e in seguito divenne il punto di riferimento per lo schieramento politico opposto a quello del poeta, vale a dire i guelfi neri.
Il matrimonio tra i due non dovette essere molto felice, secondo la tradizione raccolta dal Boccaccio e fatta propria poi nell'Ottocento da Vittorio Imbriani[68]. Dante non scrisse infatti un solo verso alla moglie, mentre di costei non ci sono pervenute notizie sull'effettiva presenza al fianco del marito durante l'esilio. Comunque sia, l'unione generò quattro figli. Giovanni, il primogenito[66], poi Jacopo, Pietro, Antonia. Pietro fu giudice a Verona e l'unico che continuò la stirpe degli Alighieri, in quanto Jacopo scelse di seguire la carriera ecclesiastica, mentre Antonia divenne monaca con il nome di Sorella Beatrice, sembra nel convento delle Olivetane a Ravenna[66]. Giovanni, della cui esistenza si è sempre dubitato, è attestato da un documento di un notaio fiorentino recante la data del 20 maggio 1314, la cui scoperta fu fatta nel 1940 da Renato Piattoli ma mai pubblicata –, è stato riscoperto nel 2016 con la pubblicazione della nuova edizione del Corpo Diplomatico Dantesco[69][70].
Impegni politici e militari
Lo stesso argomento in dettaglio: Guelfi bianchi e neri e Storia di Firenze § Gli Ordinamenti di Giustizia.
Giovanni Villani, Corso Donati fa liberare dei prigionieri, in Cronaca, XIV secolo. Corso Donati, esponente di punta dei Neri, fu acerrimo nemico di Dante, il quale lancerà contro di lui violenti attacchi nei suoi scritti[71].
Poco dopo il matrimonio, Dante cominciò a partecipare come cavaliere ad alcune campagne militari che Firenze stava conducendo contro i suoi nemici esterni, tra cui Arezzo (battaglia di Campaldino dell'11 giugno 1289) e Pisa (presa di Caprona, 16 agosto 1289)[37]. Successivamente, nel 1294, avrebbe fatto parte della delegazione di cavalieri che scortò Carlo Martello d'Angiò (figlio di Carlo II d'Angiò) che nel frattempo si trovava a Firenze[72]. L'attività politica prese Dante a partire dai primi anni 1290, in un periodo quanto mai convulso per la Repubblica. Nel 1293 entrarono in vigore gli Ordinamenti di Giustizia di Giano Della Bella, che escludevano l'antica nobiltà dalla politica e permettevano al ceto borghese di ottenere ruoli nella Repubblica, purché iscritti a un'Arte. Dante fu escluso dalla politica cittadina fino al 6 luglio del 1295, quando furono promulgati i Temperamenti, leggi che ridiedero diritto ai nobili di rivestire ruoli istituzionali, purché si immatricolassero alle Arti[37]. Dante, pertanto, si iscrisse all'Arte dei Medici e Speziali[73][74].
L'esatta serie dei suoi incarichi politici non è conosciuta, poiché i verbali delle assemblee sono andati perduti. Comunque, attraverso altre fonti, si è potuta ricostruire buona parte della sua attività: fu nel Consiglio del popolo dal novembre 1295 all'aprile 1296[75][76]; fu nel gruppo dei "Savi", che nel dicembre 1296 rinnovarono le norme per l'elezione dei priori, i massimi rappresentanti di ciascuna Arte che avrebbero occupato, per un bimestre, il ruolo istituzionale più importante della Repubblica; dal maggio al dicembre del 1296 fece parte del Consiglio dei Cento[75]. Fu inviato talvolta nella veste di ambasciatore, come nel maggio del 1300 a San Gimignano[77]. In base alle considerazioni di Barbero ricavate dagli interventi che Dante tenne nei vari organi del Comune di Firenze, il poeta si pose sempre su una linea moderata a favore del popolo contro le ingerenze e le violenze dei magnati[78].
Nel frattempo, all'interno del partito guelfo fiorentino si produsse una frattura gravissima tra il gruppo capeggiato dai Donati, fautori di una politica conservatrice e aristocratica (guelfi neri), e quello invece fautore di una politica moderatamente popolare (guelfi bianchi), capeggiato dalla famiglia Cerchi[79]. La scissione, dovuta anche a motivi di carattere politico ed economico (i Donati, esponenti dell'antica nobiltà, erano stati surclassati in potenza dai Cerchi, considerati dai primi dei parvenu)[79], generò una guerra intestina cui Dante non si sottrasse schierandosi, moderatamente, dalla parte dei guelfi bianchi[75][80].
Lo scontro con Bonifacio VIII (1300)
Sentenza dell'esilio di Dante, in una copia post 1465
Nell'anno 1300, Dante fu eletto uno dei sette priori per il bimestre 15 giugno-15 agosto[75][81]. Nonostante l'appartenenza al partito guelfo, egli cercò sempre di osteggiare le ingerenze del suo acerrimo nemico papa Bonifacio VIII, dal poeta intravisto come supremo emblema della decadenza morale della Chiesa. Con l'arrivo del cardinale Matteo d'Acquasparta, inviato dal pontefice in qualità di paciere (ma in realtà spedito per ridimensionare la potenza dei guelfi bianchi, in quel periodo in piena ascesa sui neri[82][83]), Dante riuscì ad ostacolare il suo operato. Sempre durante il suo priorato, Dante approvò il grave provvedimento con cui furono esiliati, nel tentativo di riportare la pace all'interno dello Stato, otto esponenti dei guelfi neri e sette di quelli bianchi, compreso Guido Cavalcanti[84] che di lì a poco morirà in Sarzana. Questo provvedimento ebbe serie ripercussioni sugli sviluppi degli eventi futuri: non solo si rivelò una disposizione inutile (i guelfi neri temporeggiarono prima di partire per l'Umbria, il posto destinato al loro confino)[85], ma fece rischiare un colpo di Stato da parte dei guelfi neri stessi, grazie al segreto supporto del cardinale d'Acquasparta[85]. Inoltre, il provvedimento attirò sui suoi fautori (incluso Dante stesso) sia l'odio della parte nera che la diffidenza degli "amici" bianchi: i primi, ovviamente, per la ferita inferta; i secondi, per il colpo dato al loro partito da parte di un suo stesso membro. Nel frattempo, le relazioni tra Bonifacio e il governo dei bianchi peggiorarono ulteriormente a partire dal mese di settembre, allorché i nuovi priori (succeduti al collegio di cui fece parte Dante) revocarono immediatamente il bando per i bianchi[85], mostrando la loro partigianeria e dando così al legato papale cardinale d'Acquasparta modo di scagliare l'anatema su Firenze[85]. In vista dell'invio di Carlo di Valois a Firenze, mandato dal papa come nuovo paciere (ma di fatto conquistatore) al posto del cardinale d'Acquasparta, la Repubblica spedì a Roma, nel tentativo di distogliere il papa dalle sue mire egemoniche, un'ambasceria di cui faceva parte essenziale anche Dante, accompagnato da Maso Minerbetti e da Corazza da Signa[82].
L'inizio dell'esilio (1301-1304)
Carlo di Valois e la caduta dei bianchi
Tommaso da Modena, Benedetto XI, affresco, anni '50 del XIV secolo, Sala del Capitolo, Seminario di Treviso. Il beato papa Boccasini, trevigiano, nel suo breve pontificato cercò di riportare la pace all'interno di Firenze, inviando il cardinale Niccolò da Prato come paciere. È l'unico pontefice su cui Dante non proferì alcuna condanna, ma neanche verso il quale manifestò pieno apprezzamento, tanto da non comparire nella Commedia[86].
Dante si trovava quindi a Roma[87], sembra trattenuto oltre misura da Bonifacio VIII[88], quando Carlo di Valois entrò a Firenze il giorno di Ognissanti del 1301.[89] Questi, al primo subbuglio cittadino, prese pretesto per far arrestare i capi dei guelfi bianchi con un colpo di mano, mentre i guelfi neri, tornati in città, scatenavano la loro vendetta contro gli avversari politici con assassini e incendi[90]. Il 9 novembre 1301 i nuovi padroni di Firenze imposero alla suprema magistratura, quella di podestà, Cante Gabrielli da Gubbio[89], il quale apparteneva alla fazione dei guelfi neri della sua città natia e diede inizio a una politica di sistematica persecuzione degli esponenti politici di parte bianca ostili al papa, fatto che si risolse alla fine nella loro uccisione o nell'espulsione da Firenze.[75] A seguito di un processo istruito dal giudice Paolo da Gubbio per il crimine di baratteria, Dante (considerato reo confesso in quanto contumace) venne condannato dal podestà Gabrielli dapprima, il 27 gennaio 1302, alla confisca delle proprietà, e successivamente, il 10 marzo, al rogo[91]. Da quel momento, Dante non rivide più la sua patria.
«Alighieri Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estortive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5000 fiorini di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo (in contumacia), e se lo si prende, al rogo, così che muoia”»
(Libro del chiodo - Archivio di Stato di Firenze - 10 marzo 1302[92])
I tentativi di rientro e la battaglia di Lastra (1304)
Dopo la cacciata da Firenze, Dante assieme agli altri maggiorenti bianchi si alleò ai Ghibellini, con l'obiettivo di riprendere il potere in città. L'8 Giugno 1302 è elencato tra i maggiori rappresentanti dei Ghibellini e dei Guelfi Bianchi in occasione di una riunione tra questi e la famiglia degli Ubaldini, in quella che prese il nome di Congiura di San Godenzo.[93] Dopo il fallimento delle operazioni militari del 1302, Dante, in qualità di capitano dell'esercito degli esuli, organizzò insieme a Scarpetta Ordelaffi, capo del partito ghibellino e signore di Forlì (presso il quale Dante si era rifugiato)[94][N 4], un nuovo tentativo di rientrare a Firenze. L'impresa fu però sfortunata: il podestà di Firenze, Fulcieri da Calboli (un altro forlivese, nemico degli Ordelaffi), riuscì ad avere la meglio nella battaglia nei pressi del castello di Pulicciano, nei pressi di Arezzo[95]. Fallita anche l'azione diplomatica, nell'estate del 1304, del cardinale Niccolò da Prato[96], legato pontificio di papa Benedetto XI (sul quale Dante aveva riposto molte speranze)[97][98], il 20 luglio dello stesso anno i bianchi, riuniti alla Lastra, una località a pochi chilometri da Firenze, decisero di intraprendere un nuovo attacco militare contro i neri[99]. Dante, ritenendo corretto aspettare un momento politicamente più favorevole, si schierò contro l'ennesima lotta armata, trovandosi in minoranza al punto che i più intransigenti formularono su di lui dei sospetti di tradimento; pertanto decise di non partecipare alla battaglia e di prendere le distanze dal gruppo. Come preventivato dallo stesso, la battaglia di Lastra fu un vero e proprio fallimento con la morte di quattrocento uomini fra ghibellini e bianchi[99]. Il messaggio profetico ci arriva da Cacciaguida:
«Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch'a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.»
(Paradiso XVII, vv. 67-69)
La prima fase dell'esilio (1304-1310)
Tra Forlì e la Lunigiana dei Malaspina
Il castello-palazzo vescovile di Castelnuovo dove Dante nel 1306 pacificò i rapporti tra i Marchesi Malaspina e i Vescovi-Conti di Luni
Dante fu, dopo la battaglia della Lastra, ospite di diverse corti e famiglie della Romagna, fra cui gli stessi Ordelaffi. Il soggiorno forlivese non durò a lungo, in quanto l'esule si spostò prima a Bologna (1305), poi a Padova nel 1306 e infine nella Marca Trevigiana[57] presso Gherardo III da Camino[100]. Da qui, Dante fu chiamato in Lunigiana da Moroello Malaspina (quello di Giovagallo, visto che più membri della famiglia portavano questo nome)[101], col quale il poeta entrò forse in contatto grazie a un amico comune, il poeta Cino da Pistoia[102]. In Lunigiana (regione in cui giunse nella primavera del 1306), Dante ebbe l'occasione di negoziare la missione diplomatica per un'ipotesi di pace tra i Malaspina, «potenti in un'ampia zona di passaggio fra la Riviera di Levante, l'Appennino e la pianura padana, da Bocca di Magra su per la Lunigiana e il passo della Cisa fino al Piacentino»[103], e il vescovo-conte di Luni, Antonio Nuvolone da Camilla (1297 – 1307)[104]. In qualità di procuratore plenipotenziario dei Malaspina, Dante riuscì a far firmare da ambo le parti la pace di Castelnuovo del 6 ottobre del 1306[58][104], successo che gli fece guadagnare la stima e la gratitudine dei suoi protettori. L'ospitalità malaspiniana è celebrata nel Canto VIII del Purgatorio, dove al termine del componimento Dante formula alla figura di Corrado Malaspina il Giovane l'elogio del casato[105]:
«[...] e io vi giuro.../... che vostra gente onrata.../ sola và dritta e 'l mal cammin dispregia.»
(Pg VIII, vv. 127-132)
Nel 1307[106], dopo aver lasciato la Lunigiana, Dante si trasferì nel Casentino, dove fu ospite, secondo Boccaccio[107], di Guido Salvatico dei conti Guidi, conti di Battifolle e signori di Poppi, presso i quali iniziò a stendere la cantica dell'Inferno[58].
La discesa di Arrigo VII (1310-1313)
Monumento a Dante Alighieri a Villafranca in Lunigiana presso la tomba sacello dei Malaspina
François-Xavier Fabre, Ritratto di Ugo Foscolo, pittura, 1813, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
Il Ghibellin fuggiasco
Il soggiorno nel Casentino durò pochissimo tempo: tra il 1308 e il 1310 si può infatti ipotizzare che il poeta risiedesse prima a Lucca e poi a Parigi, anche se non è possibile valutare con certezza il soggiorno transalpino come già precedentemente esposto: Barbero, raccogliendo le testimonianze sia dei primi commentatori di Dante che di quelli successivi, pensa che al massimo il poeta possa essersi spinto fino alla corte papale di Avignone, pur sottolineando che questa sia solo una mera ipotesi poco fondata[108]. Dante, molto più probabilmente, si trovava a Forlì nel 1310[106], dove ebbe la notizia, nel mese di ottobre[58], della discesa in Italia del nuovo imperatore Arrigo VII, succeduto ad Alberto I d'Asburgo morto assassinato il 1º maggio del 1308[109]. Dante guardò a quella spedizione con grande speranza, in quanto vi intravedeva non soltanto la fine dell'anarchia politica italiana[N 5], ma anche la concreta possibilità di rientrare finalmente a Firenze[58]. Infatti l'imperatore fu salutato dai ghibellini italiani e dai fuoriusciti politici guelfi, connubio che spinse il poeta ad avvicinarsi alla fazione imperiale italiana capeggiata dagli Scaligeri di Verona[110]. Dante, che tra il 1308 e il 1311 stava scrivendo il De Monarchia, manifestò le sue aperte simpatie imperiali, scagliando una violenta lettera contro i fiorentini il 31 marzo del 1311[58], unici tra i Comuni italiani a non aver inviato dei propri rappresentanti a Losanna per omaggiare l'imperatore[111], e giungendo, sulla base di quanto affermato nell'epistola indirizzata ad Arrigo VII, a incontrare l'imperatore stesso in un colloquio privato[112]. Non sorprende, pertanto, che Ugo Foscolo giungerà a definire Dante come un ghibellino:
«E tu prima, Firenze, udivi il carme
Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco.»
(Ugo Foscolo, Dei sepolcri, vv. 173-174)
Nel frattempo Arrigo, dopo aver risolto dei problemi nel Nord Italia, si diresse a Genova e da lì a Pisa[N 6], sua grande sostenitrice: è possibile che Dante fosse al suo seguito[113]. Nel 1312, dopo essere stato incoronato nella Basilica del Laterano dal legato papale Niccolò da Prato il 1º agosto 1312, l'imperatore assediò Firenze dal 19 settembre fino al 1º novembre senza ottenere la sudditanza della città toscana[114]. Il sogno dantesco di una Renovatio Imperii si infrangerà il 24 agosto del 1313, quando l'imperatore venne a mancare, improvvisamente, a Buonconvento[115]. Se già la morte violenta di Corso Donati, avvenuta il 6 ottobre del 1308 per mano di Rossellino Della Tosa (l'esponente più intransigente dei guelfi neri)[106], aveva fatto crollare le speranze di Dante[N 7], la morte dell'imperatore diede un colpo mortale ai tentativi del poeta di rientrare definitivamente a Firenze[106].
Busto di Dante Alighieri presso il Castello di Poppi
Gli ultimi anni
Cangrande della Scala, in un ritratto immaginario del XVII secolo. Abilissimo politico e grande condottiero, Cangrande fu mecenate della cultura e dei letterati in particolare, stringendo amicizia con Dante.
Il soggiorno veronese (1313-1318)
Lo stesso argomento in dettaglio: Della Scala.
All'indomani della morte improvvisa dell'imperatore, Dante accolse l'invito di Cangrande della Scala a risiedere presso la sua corte di Verona[58]. Dante aveva già avuto modo, in passato, di risiedere nella città veneta, in quegli anni nel pieno della sua potenza. Petrocchi, come delineato prima nel suo saggio Itinerari danteschi e poi nella Vita di Dante[116] ricorda come Dante fosse già stato ospite, per pochi mesi tra il 1303 e il 1304, presso Bartolomeo della Scala, fratello maggiore di Cangrande. Quando poi Bartolomeo morì, nel marzo del 1304, Dante fu costretto a lasciare Verona in quanto il suo successore, Alboino, non era in buoni rapporti col poeta[117]. Alla morte di Alboino, il 29 novembre 1311[118], divenne suo successore il fratello Cangrande[119], tra i capi dei ghibellini italiani e protettore (oltreché amico) di Dante[119]. Fu in virtù di questo legame che Cangrande chiamò a sé l'esule fiorentino e i suoi figli Pietro e Jacopo, dando loro sicurezza e protezione dai vari nemici che si erano fatti negli anni. L'amicizia e la stima tra i due uomini fu tale che Dante esaltò, nella cantica del Paradiso – composta per la maggior parte durante il soggiorno veronese –, il suo generoso patrono in un panegirico per bocca dell'avo Cacciaguida:
«Lo primo tuo refugio e 'l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che 'n su la scala porta il santo uccello;
ch'in te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra l'altri è più tardo
[...]
Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che' suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.
A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;»
(Paradiso XVII, vv. 70-75, 85-90)
Nel 2018 è stata scoperta da Paolo Pellegrini, docente dell'Università di Verona, una nuova lettera, scritta probabilmente proprio da Dante nel mese di agosto del 1312 e spedita da Cangrande al nuovo imperatore Enrico VII; essa modificherebbe sostanzialmente la data del soggiorno veronese del poeta, anticipando il suo arrivo al 1312, ed escluderebbe le ipotesi che volevano Dante a Pisa o in Lunigiana tra il 1312 ed il 1316[120].
Il soggiorno ravennate (1318-1321)
Andrea Pierini, Dante legge la Divina Commedia alla corte di Guido Novello, 1850, dipinto a olio, Palazzo Pitti-Galleria D'Arte Moderna, Firenze
Dante, L'arzana de' Veneziani
Dante, per motivi ancora sconosciuti, si allontanò da Verona per approdare, nel 1318, a Ravenna, presso la corte di Guido Novello da Polenta, uomo «poco più giovane di Dante...[che] apparteneva a quella grande aristocrazia dell'Appennino che da tempo stava imponendo il suo dominio sui Comuni della Romagna»[121]. I critici hanno cercato di comprendere le cause dell'allontanamento di Dante dalla città scaligera, visti gli ottimi rapporti che intercorrevano tra Dante e Cangrande. Augusto Torre ipotizzò una missione politica a Ravenna, affidatagli dallo stesso suo protettore[122]; altri pongono le cause in una crisi momentanea tra Dante e Cangrande, oppure nell'attrattiva di far parte di una corte di letterati tra i quali il signore stesso (cioè Guido Novello), che si professava tale[123]; ancora, chi pensa che Dante, uomo fiero e indipendente, resosi conto di essere diventato un cortigiano a tutti gli effetti, preferì prendere congedo dagli Scaligeri[124]. Tuttavia, i rapporti con Verona non cessarono del tutto, come testimoniato dalla presenza di Dante nella città veneta il 20 gennaio 1320, per discutere la Quaestio de aqua et terra, l'ultima sua opera latina[125].
Gli ultimi tre anni di vita trascorsero relativamente tranquilli nella città romagnola, durante i quali Dante creò un cenacolo letterario frequentato dai figli Pietro e Jacopo[62][126] e da alcuni giovani letterati locali, tra i quali Pieraccio Tedaldi e Giovanni Quirini[127]. Per conto del signore di Ravenna svolse occasionali ambascerie politiche[128], come quella che lo condusse a Venezia. All'epoca, la città lagunare era in attrito con Guido Novello a causa di attacchi continui alle sue navi da parte delle galee ravennati[129] e il doge, infuriato, si alleò con Forlì per muovere guerra a Guido Novello; questi, ben sapendo di non disporre dei mezzi necessari per fronteggiare tale invasione, chiese a Dante di intercedere per lui davanti al Senato veneziano. Gli studiosi si sono domandati perché Guido Novello avesse pensato proprio all'ultracinquantenne poeta come suo rappresentante: alcuni ritengono che sia stato scelto Dante per quella missione in quanto amico degli Ordelaffi, signori di Forlì, e quindi in grado di trovare più facilmente una via per comporre le divergenze in campo[130].
La morte e i funerali
L'ambasceria di Dante sortì un buon effetto per la sicurezza di Ravenna, ma fu fatale al poeta che, di ritorno dalla città lagunare, contrasse la malaria mentre passava dalle paludose Valli di Comacchio[106]. Le febbri portarono velocemente il poeta cinquantaseienne alla morte, che avvenne a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321[106][131]. I funerali, in pompa magna, furono officiati nella chiesa di San Pier Maggiore (oggi San Francesco) a Ravenna, alla presenza delle massime autorità cittadine e dei figli[132]. La morte improvvisa di Dante suscitò ampio rammarico nel mondo letterario, come dimostrato da Cino da Pistoia nella sua canzone Su per la costa, Amor, de l'alto monte[133].
Le spoglie mortali
Le "tombe" di Dante
Lo stesso argomento in dettaglio: Tomba di Dante.
La tomba di Dante a Ravenna, realizzata da Camillo Morigia
Dante trovò inizialmente sepoltura in un'urna di marmo posta nella chiesa ove si tennero i funerali[134]. Quando la città di Ravenna passò poi sotto il controllo della Serenissima, il podestà Bernardo Bembo (padre del ben più celebre Pietro) ordinò all'architetto Pietro Lombardi, nel 1483, di realizzare un grande monumento che ornasse la tomba del poeta[134]. Ritornata la città, al principio del XVI secolo, agli Stati della Chiesa, i legati pontifici trascurarono le sorti della tomba di Dante, la quale cadde presto in rovina. Nel corso dei due secoli successivi furono compiuti solo due tentativi per porre rimedio alle disastrose condizioni in cui il sepolcro versava: il primo fu nel 1692, quando il cardinale legato per le Romagne Domenico Maria Corsi e il prolegato Giovanni Salviati, entrambi di nobili famiglie fiorentine, provvidero a restaurarla[135]. Nonostante fossero passati pochi decenni, il monumento funebre fu rovinato a causa del sollevamento del terreno sottostante la chiesa, cosa che spinse il cardinale legato Luigi Valenti Gonzaga a incaricare l'architetto Camillo Morigia, nel 1780, di progettare il tempietto neoclassico tuttora visibile[134].
Dante Alighieri, Divina commedia. Milano, Edizione Paoline, 1983. Legatura in similpelle con impressioni e fregi in oro, astuccio, pagine 461. Miniature a colori tratte dal Manoscritto Urbinate Latino 365 della Biblioteca Apostolica Vaticana. In ottimo stato - un piccolo strappetto marginale alla prima pagina senza perdita di carta. Senza riserva!
Dante urbinate, manoscritto in formato atlantico confezionato con pergamena di alta qualità, è tra i capolavori della collezione di Federico da Montefeltro. L’articolato e complesso apparato decorativo e illustrativo è stato, già in tempi molto precoci, stimolo al dibattito storiografico. Fu Adolfo Venturi (in Franciosi, Il Dante Vaticano, pp. 123-124 e nt. 9) che per primo indicò in Guglielmo Giraldi l’autore delle miniature a commento della Commedia (cfr. qui per la questione relativa alla presenza dei maestri padano-ferraresi a Urbino e per il loro legame con Matteo Contugi, copista del codice). Un’attribuzione ancora oggi valida – seppure con tutta una serie di sfumature, cfr. oltre – e che non è mai stata messa in discussione (cfr. tra gli altri Hermann, La miniatura estense, passim; Hermanin, Le miniature ferraresi, pp. 341-373; D’Ancona, La miniatura, pp. 353-361; Bonicatti, Aspetti dell’illustrazione, pp. 107-149; Bonicatti, Contributo al Giraldi, pp. 195-210; Levi D’Ancona, Contributi al problema, pp. 33-45; Luigi Michelini Tocci in Il Dante Urbinate, commentario all’edizione facsimilare del 1965 che qui si utilizza per la decodifica e le attribuzioni delle immagini all’interno delle annotazioni). Se Venturi si concentrò soprattutto su Giraldi, Federico Hermanin si pose il problema della presenza di collaboratori al lavoro al fianco del maestro e tentò di mettere a fuoco la figura di Alessandro Leoni, nipote di Giraldi stesso e attestato con lui nell’esecuzione di manoscritti per i Gonzaga; lo studioso individuò inoltre altre due mani, che indicò come quella del Violaceo I e del Violaceo II (Hermanin, Le miniature ferraresi, pp. 341-373), a testimonianza della complessità del manoscritto.
Sin dagli albori del Novecento si è inoltre fatta strada l’ipotesi – ancora oggi valida, cfr. oltre – che alcune delle miniature tabellari negli ultimi canti dell’Inferno e la maggior parte di quelle che illustrano il Purgatorio non dovessero essere attribuite alla bottega di Giraldi, bensì a un secondo gruppo di artisti che, ancora una volta Hermanin, riuniva attorno a quel «magistro Franco da Ferara» – vale a dire Franco dei Russi – unico registrato tra i «maestri miniadori de libri» nella Memoria felicissima delo Illustrissimo Duca Federico Duca de Urbino compilata dal cortegiano Susech (Urb. lat. 1204, f. 102r; è una vera e propria lista del personale al servizio nella corte feltresca durante gli anni del regno di Federico). Lo studioso suggeriva un’ipotesi per l’avvicendarsi delle due botteghe: la circostanza cioè che Franco fosse stanziale a Urbino, a differenza di Giraldi che continuava invece a lavorare anche a Ferrara (Hermanin, Le miniature ferraresi, pp. 341-373, egli fu successivamente smentito da un documento epistolare, cfr. oltre; un proposta confutata anche da Paolo D’Ancona, La miniatura, p. 354). Nella scia di Hermanin si pose Alberto Serafini, il primo a individuare l’ormai celebre frammento con il Trionfo di dotto della British Library di Londra, firmato «Dii faveant / opus Franchi miniatoris» (Add. 20916), che lo studioso mise in relazione proprio con un esemplare della collezione urbinate, l'Urb. lat. 336 (le Epistolae di Libanio, databile agli anni del ducato di Federico) che gli suggerì di dare più rilievo alla presenza a Urbino di Franco piuttosto che a quella di Giraldi (Serafini, Ricerche, pp. 420-422). L’idea della diversa rilevanza dei due miniatori è al centro della riflessione di Maurizio Bonicatti, che ancora una volta sottolineava l’importanza di Giraldi, coadiuvato nell’impresa soprattutto da Alessandro Leoni, sia nell’Inferno sia nei primi fogli della seconda cantica. Lo studioso rifiutava sostanzialmente la possibilità di un intervento di Franco dei Russi e assegnava la campagna di decorazione ‘non giraldiana’ a colui che denominava Secondo maestro, a sua volta a capo di un’équipe (Bonicatti, Contributo al Giraldi, pp. 195-210; Bonicatti, Nuovo contributo, pp. 259-264). Alla metà degli anni ’50 Bonicatti e, contestualmente ma in maniera separata, Gino Franceschini pubblicarono una importante lettera che permise di mettere a fuoco un punto fondamentale della vicenda (smentendo nei fatti la posizione di Hermanin, cfr. supra). Datata al 1480, in essa Federico da Montefeltro scriveva a Ludovico Gonzaga, duca di Ferrara, che avrebbe inviato in città «messer Guglielmo servitore de Vostra Signoria et mio miniatore» per copiare alcuni volumi (Bonicatti, Contributo al Giraldi, p. 195; Franceschini, Figure del Rinascimento, p. 144); Bonicatti ne dedusse quindi che il Secondo maestro fosse subentrato a Giraldi a causa della morte di quest’ultimo. La pubblicazione della lettera aprì quindi a tutta una serie di ipotesi: Mirella Levi D’Ancona, che offrì una serie di puntualizzazioni sull’attribuzione delle miniature, suggeriva che la partenza di Giraldi per Ferrara avesse indotto Federico a investire Franco del compito di portare a termine il lavoro sulla Commedia (Levi D’Ancona, Contributi al problema, pp. 42-43). Luigi Michelini Tocci assegnava infine il lavoro a due diverse équipe, la prima da ricondurre a Guglielmo Giraldi e la seconda a Franco dei Russi, in un avvicendamento dovuto forse all’eccessiva lentezza di Giraldi (Il Dante Urbinate, passim), per poi interrompersi definitivamente con la morte di Federico stesso (1482). Una posizione ancora oggi valida nelle sue premesse e che ha fornito una solida base per ulteriori e più articolate riflessioni. In anni recenti, infatti, Giordana Mariani Canova si è diffusamente concentrata sul Dante urbinate, soprattutto nei suoi studi dedicati a Guglielmo Giraldi, al quale suggerisce di affidare, insieme alla sua bottega, l’intero apparato illustrativo dell’Inferno e il frontespizio e le prime due miniature tabellari del Purgatorio. La campagna di illustrazione della seconda cantica è quindi proseguita da Franco dei Russi e dalla propria équipe (Mariani Canova, Guglielmo Giraldi 1995, passim); la studiosa sottolinea a tal proposito che i due maestri avessero già collaborato alla realizzazione di uno dei volumi della Bibbia della Certosa di San Cristoforo a Ferrara, impresa alla quale partecipa molto probabilmente anche Alessandro Leoni (cfr. Modena, Biblioteca Estense Universitaria, alfa Q.4.9 = Lat. 990, Salterio sottoscritto «per magistrum Gulielmum civem ferrariensem et Alexandrum eius nepotem»; Mariani Canova, Guglielmo Giraldi 1995, passim). L’allestimento del Dante per Federico da Montefeltro si interruppe probabilmente con la morte di questi nel 1482: la scomparsa del committente arrestò il lavoro, completato solo per la prima cantica e per parte del Purgatorio.
Una seconda campagna decorativa fu quindi avviata nel Seicento, per volontà di Francesco Maria II Della Rovere (1549-1631), quando il miniatore Valerio Mariani fu incaricato di concludere il lavoro sospeso dai maestri padano-ferraresi e portò così a termine, intervenendo negli spazi riservati già predisposti, il Purgatorio ed eseguì ex novo il ciclo del Paradiso.
In un primo tempo il responsabile di questa seconda fase di decorazione fu indicato in Giulio Clovio, attribuzione confutata a ragione da Luigi Michelini Tocci, grazie a documenti d’archivio e attraverso il confronto tra l’Urb. lat. 365 e quanto visibile negli Urb. lat. 1765, Historia de’ fatti di Federico di Montefeltro, e Urb. lat. 1764, Vita di Francesco Maria I della Rovere (Michelini Tocci, Introduzione, pp. 63-64). Silvia Meloni Trkulja, ai primissimi anni ’80 del Novecento, confermò tale attribuzione in seguito al ritrovamento agli Uffizi di Firenze di un foglio illustrato con la Battaglia di San Fabiano e firmato proprio da Valerio Mariani di Pesaro (Meloni Trkulja, I miniatori di Francesco Maria, pp. 33-38; Ead., Scheda nr. 384, p. 204). Nel medesimo solco si collocano gli studi di Erma Hermens che, tra le altre cose, proponeva la presenza di un collaboratore ad affiancare il maestro nell’impresa (Hermens, Valerio Mariani, pp. 93-102; posizione condivisa anche da Helena Szépe, Mariani, Valerio, pp. 723-727).
Nato come manufatto di apparato per soddisfare le esigenze di completezza della raccolta libraria federiciana, nel suo completamento seicentesco l’Urb. lat. 365 è anche un peculiare esempio di ‘recupero dell’antico’, dove l’antico non è più quello classico, ma quello umanistico-rinascimentale, senza dubbio venato da una volontà di autolegittimazione del potere da parte del nuovo possessore, quel Federico Maria II Della Rovere, ultimo duca di Urbino.
Dante Alighieri, o Alighiero, battezzato Durante di Alighiero degli Alighieri e anche noto con il solo nome di Dante, della famiglia Alighieri (Firenze, tra il 14 maggio e il 13 giugno 1265 – Ravenna, notte tra il 13 e il 14 settembre[1][2][3] 1321), è stato un poeta, scrittore e politico italiano.
Il nome "Dante", secondo la testimonianza di Jacopo Alighieri, è un ipocoristico di Durante[N 1]; nei documenti era seguito dal patronimico Alagherii o dal gentilizio de Alagheriis, mentre la variante "Alighieri" si affermò solo con l'avvento di Boccaccio.
Viene considerato il padre della lingua italiana; la sua fama è dovuta alla paternità della Comedìa, divenuta celebre come Divina Commedia e universalmente considerata la più grande opera scritta in lingua italiana e uno dei maggiori capolavori della letteratura mondiale[4]. Espressione della cultura medievale, filtrata attraverso la lirica del Dolce stil novo, la Commedia è anche veicolo allegorico della salvezza umana, che si concretizza nel toccare i drammi dei dannati, le pene purgatoriali e le glorie celesti, permettendo a Dante di offrire al lettore uno spaccato di morale ed etica.
Importante linguista, teorico politico e filosofo, Dante spaziò all'interno dello scibile umano, segnando profondamente la letteratura italiana dei secoli successivi e la stessa cultura occidentale, tanto da essere soprannominato il "Sommo Poeta" o, per antonomasia, il "Poeta"[5]. Dante, le cui spoglie si trovano a Ravenna nella tomba costruita nel 1780 da Camillo Morigia, in epoca romantica divenne il principale simbolo dell'identità nazionale italiana[6]. Da lui prende il nome il principale ente della diffusione della lingua italiana nel mondo, la Società Dante Alighieri[7], mentre gli studi critici e filologici sono mantenuti vivi dalla Società dantesca.
Biografia
Stemma Alighieri
Le origini
La data di nascita e il mito di Boccaccio
Casa di Dante a Firenze
La data di nascita di Dante non è conosciuta con esattezza, anche se solitamente viene indicata attorno al 1265. Tale datazione è ricavata sulla base di alcune allusioni autobiografiche riportate nella Vita Nova e nella cantica dell'Inferno, che comincia con il celeberrimo verso Nel mezzo del cammin di nostra vita. Postulando le ipotesi, infatti, che la metà della vita dell'uomo sia, per Dante, il trentacinquesimo anno di vita[8][9] e che il viaggio immaginario fosse avvenuto nel 1300, allora si risalirebbe di conseguenza al 1265. Oltre alle elucubrazioni dei critici, viene in supporto di tale ipotesi un contemporaneo di Dante, lo storico fiorentino Giovanni Villani il quale, nella sua Nova Cronica, riporta che «questo Dante morì in esilio del comune di Firenze in età di circa 56 anni»[10]: una prova che confermerebbe tale idea. Altra testimonianza è riportata da Giovanni Boccaccio che, nelle sue ricerche sulla vita dell'amato Dante, conobbe a Ravenna ser Piero di messer Giardino da Ravenna, amico di Dante durante l'esilio di quest'ultimo nella città romagnola: il poeta avrebbe raccontato a Piero poco prima di spirare di aver compiuto 56 anni nel mese di maggio[11]. Alcuni versi del Paradiso suggeriscono inoltre che egli nacque sotto il segno dei Gemelli, quindi in un periodo compreso fra il 14 maggio e il 13 giugno[12].
Tuttavia, se sconosciuto è il giorno della sua nascita, certo invece è quello del battesimo: il 27 marzo 1266, di Sabato santo[13][14]. Quel giorno vennero portati al sacro fonte tutti i nati dell'anno per una solenne cerimonia collettiva. Dante venne battezzato con il nome di Durante, poi sincopato in Dante[15], in ricordo di un parente ghibellino[16]. Pregna di rimandi classici è la leggenda narrata da Giovanni Boccaccio ne Il Trattatello in laude di Dante riguardo alla nascita del poeta: secondo Boccaccio, la madre di Dante, poco prima di darlo alla luce, ebbe una visione e sognò di trovarsi sotto un alloro altissimo, in mezzo a un vasto prato con una sorgente zampillante insieme al piccolo Dante appena partorito e di vedere il bimbo tendere la piccola mano verso le fronde, mangiare le bacche e trasformarsi in un magnifico pavone[17][18].
La famiglia paterna e materna
Lo stesso argomento in dettaglio: Alighieri.
Luca Signorelli, Dante, affresco, 1499-1502, particolare tratto dalle Storie degli ultimi giorni, cappella di San Brizio, Duomo di Orvieto
Dante apparteneva agli Alighieri, una famiglia di secondaria importanza all'interno dell'élite sociale fiorentina che, negli ultimi due secoli, aveva raggiunto una certa agiatezza economica. Benché Dante affermi che la sua famiglia discendesse dagli antichi Romani[19], il parente più lontano di cui egli fa nome è il trisavolo Cacciaguida degli Elisei[20], fiorentino vissuto intorno al 1100 e cavaliere nella seconda crociata al seguito dell'imperatore Corrado III[21].
Come sottolinea Arnaldo D'Addario sull'Enciclopedia dantesca, la famiglia degli Alighieri (che prese tale nominativo dalla famiglia della moglie di Cacciaguida[21]) e che risultava abitare nel sesto di Porta San Piero[22], passò da uno status nobiliare meritocratico[23] a uno borghese agiato, ma meno prestigioso sul piano sociale[24][N 2]. Il nonno paterno di Dante, Bellincione, era infatti un popolano e un popolano sposò la sorella di Dante[18]. Il figlio di Bellincione (e padre di Dante), Aleghiero o Alighiero di Bellincione, svolgeva la professione di compsor (cambiavalute), con la quale riuscì a procurare un dignitoso decoro alla numerosa famiglia[25][26]. Grazie alla scoperta di due pergamene conservate nell’Archivio Diocesano di Lucca, però, si viene a sapere che il padre di Dante avrebbe fatto anche l'usuraio (dando adito alla Tenzone tra l'Alighieri e l'amico Forese Donati[27]), traendo degli arricchimenti tramite la sua posizione di procuratore giudiziale presso il tribunale di Firenze[28]. Era inoltre un guelfo, ma senza ambizioni politiche: per questo i ghibellini non lo esiliarono dopo la battaglia di Montaperti, come fecero con altri guelfi, giudicandolo un avversario non pericoloso[18].
La madre di Dante si chiamava Bella degli Abati[N 3], figlia di Durante Scolaro[29] (è probabile che i genitori di Dante abbiano dato al figlio il nome del nonno[30]) e appartenente a un'importante famiglia ghibellina locale[18]. Il figlio Dante non la citerà mai tra i suoi scritti, col risultato che di lei possediamo pochissime notizie biografiche. Bella morì quando Dante aveva cinque o sei anni e Alighiero, che probabilmente aveva già quarant'anni quando Dante nacque[31] e che morì in base alle fonti nel 1282-1283[32], presto si risposò, forse tra il 1275 e il 1278[33], con Lapa di Chiarissimo Cialuffi. Da questo matrimonio nacquero Francesco e Tana Alighieri (Gaetana)[34] e forse anche – ma potrebbe essere stata anche figlia di Bella degli Abati – un'altra figlia ricordata dal Boccaccio come moglie del banditore fiorentino Leone Poggi e madre di Andrea Poggi[33] il quale, secondo la testimonianza sempre di Boccaccio, assomigliava in modo impressionante allo zio Dante[35]. Si ritiene che Dante alluda alla sorella dal nome ignoto in Vita nuova (Vita nova) XXIII, 11-12, chiamandola «donna giovane e gentile [...] di propinquissima sanguinitade congiunta»[33].
La formazione intellettuale
I primi studi e Brunetto Latini
Codice miniato raffigurante Brunetto Latini, Biblioteca Medicea-Laurenziana, Plut. 42.19, Brunetto Latino, Il Tesoro, fol. 72, secoli XIII-XIV
Della formazione di Dante non si conosce molto[36]. Con ogni probabilità seguì l'iter educativo proprio dell'epoca, che si basava sulla formazione presso un grammatico (conosciuto anche con il nome di doctor puerorum, probabilmente) con il quale apprendere prima i rudimenti linguistici, per poi approdare allo studio delle arti liberali, pilastro dell'educazione medioevale[37][38]: aritmetica, geometria, musica, astronomia da un lato (quadrivio); dialettica, grammatica e retorica dall'altro (trivio). Come si può dedurre da Convivio II, 12, 2-4, l'importanza del latino quale veicolo del sapere era fondamentale per la formazione dello studente, in quanto la ratio studiorum si basava essenzialmente sulla lettura di Cicerone e di Virgilio da un lato e del latino medievale dall'altro (Arrigo da Settimello, in particolare)[39].
L'educazione ufficiale era poi accompagnata dai contatti "informali" con gli stimoli culturali provenienti ora da altolocati ambienti cittadini, ora dal contatto diretto con viaggiatori e mercanti stranieri che importavano, in Toscana, le novità filosofiche e letterarie dei rispettivi Paesi d'origine[39]. Dante ebbe la fortuna di incontrare, negli anni ottanta, il politico ed erudito fiorentino Ser Brunetto Latini, reduce da un lungo soggiorno in Francia sia come ambasciatore della Repubblica, sia come esiliato politico[40]. L'effettiva influenza di Ser Brunetto sul giovane Dante è stata oggetto di studio da parte di Francesco Mazzoni[41] prima, e di Giorgio Inglese poi[42]. Entrambi i filologi, nei loro studi, cercarono di inquadrare l'eredità dell'autore del Tresor sulla formazione intellettuale del giovane concittadino. Dante, da parte sua, ricordò commosso la figura del Latini nella Commedia, rimarcandone l'umanità e l'affetto ricevuto:
«[...] e or m'accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m'insegnavate come l'uom s'etterna [...]»
(Inferno, Canto XV, vv. 82-85)
La basilica di Santa Maria Novella a Firenze, dove Dante studiò filosofia oltreché teologia.
Da questi versi, Dante espresse chiaramente l'apprezzamento di una letteratura intesa nel suo senso "civico"[37][43], nell'accezione di utilità civica. La comunità in cui vive il poeta, infatti, ne serberà il ricordo anche dopo la morte di quest'ultimo. Umberto Bosco e Giovanni Reggio, inoltre, rimarcano l'analogia tra il messaggio dantesco e quello manifestato da Brunetto nel Tresor, come si evince dalla volgarizzazione toscana dell'opera realizzata da Bono Giamboni[44].
Lo studio della filosofia
«E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella [la Donna Gentile] si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero.»
(Convivio, [[s:Convivio/Trattato secondo#Capitolo 12 verso 1|II,|12 7]])
Dante, all'indomani della morte dell'amata Beatrice (in un periodo oscillante tra il 1291 e il 1294/1295)[45], cominciò a raffinare la propria cultura filosofica frequentando le scuole organizzate dai domenicani di Santa Maria Novella e dai francescani di Santa Croce[46]; se gli ultimi erano ereditari del pensiero di Bonaventura da Bagnoregio, i primi erano ereditari della lezione aristotelico-tomista di Tommaso d'Aquino, permettendo a Dante di approfondire (forse grazie all'ascolto diretto del celebre studioso Fra' Remigio de' Girolami)[47] il Filosofo per eccellenza della cultura medievale[48]. Enrico Malato sottolinea però come presso la chiesa di Santa Maria Novella, più che la filosofia, si insegnasse la teologia tomista, motivo per cui si deve credere che Dante in quegli anni non si erudì solo di filosofia, ma anche di teologia[49]. Inoltre, la lettura dei commenti di intellettuali che si opponevano all'interpretazione tomista (quali l'arabo Averroè), permise a Dante di adottare una sensibilità «polifonica dell'aristotelismo»[50].
I presunti legami con Bologna e Parigi
Giorgio Vasari, Sei poeti toscani (da destra: Cavalcanti, Dante, Boccaccio, Petrarca, Cino da Pistoia e Guittone d'Arezzo), pittura a olio, 1544, conservata presso il Minneapolis Institute of Art, Minneapolis. Considerato uno dei maggiori lirici volgari del XIII secolo, Cavalcanti fu la guida e il primo interlocutore poetico di Dante, quest'ultimo poco più giovane di lui.
Alcuni critici ritengono che Dante abbia soggiornato a Bologna[51]. Anche Giulio Ferroni ritiene certa la presenza di Dante nella città felsinea: «un memoriale bolognese del notaio Enrichetto delle Querce attesta (in una forma linguistica locale) il sonetto Non mi poriano già mai fare ammenda: la circostanza viene considerata indizio pressoché certo di una presenza di Dante a Bologna anteriore a questa data»[52]. Entrambi ritengono che Dante abbia studiato presso l'Università di Bologna, ma non vi sono prove in proposito[53].
Invece è molto probabile che Dante soggiornasse a Bologna tra l'estate del 1286 e quella del 1287[54], dove conobbe Bartolomeo da Bologna[55], alla cui interpretazione teologica dell'Empireo Dante in parte aderisce. Riguardo al soggiorno parigino, ci sono invece parecchi dubbi: in un passo del Paradiso, (Che, leggendo nel Vico de li Strami, silogizzò invidïosi veri)[56], Dante alluderebbe alla Rue du Fouarre, dove si svolgevano le lezioni della Sorbona. Questo ha fatto pensare a qualche commentatore, in modo puramente congetturale, che Dante possa essersi realmente recato a Parigi tra il 1309 e il 1310[57][58]. Come riassume Alessandro Barbero, la formazione intellettuale di Dante doveva essersi svolta pressappoco secondo questo iter:
«Il probabile percorso degli studi di Dante si presenta dunque più o meno così. Un primo maestro, un doctor puerorum, assunto a contratto dalla famiglia, gli insegnò prima a leggere e poi a scrivere, e contemporaneamente lo introdusse ai primi rudimenti della lingua latina [...] Successivamente un altro maestro, un doctor gramatice, gli avrà impartito un insegnamento più avanzato del latino, e gli elementi di base delle altre arti liberali. Durante l'adolescenza, Brunetto Latini gli insegnò l'arte dell'epistolografia, l'ars dictaminis [...] Poi, inotrno ai vent'anni, Dante - orfano di padre, ripetiamolo, e dunque padrone della propria vita - andò a Bologna a perfezionarsi frequentando la facoltà di arti, e approfondendo ulteriormente la retorica. Divenne così, come scriverà Giovanni Villani, "rettorico perfetto tanto in dittare, versificare, come in aringa parlare": padrone, cioè di tutti i mezzi espressivi, dalla poesia al discorso politico.»
(Barbero, p. 91)
La lirica volgare. Dante e l'incontro con Cavalcanti
Lo stesso argomento in dettaglio: Dolce stil novo.
Ritratto immaginario di Guido Cavalcanti, tratta dall'edizione delle Rime del 1813.
Dante ebbe inoltre modo di partecipare alla vivace cultura letteraria ruotante intorno alla lirica volgare. Negli anni sessanta del XIII secolo, in Toscana giunsero i primi influssi della "Scuola siciliana", movimento poetico sorto intorno alla corte di Federico II di Svevia e che rielaborò le tematiche amorose della lirica provenzale. I letterati toscani, subendo gli influssi delle liriche di Giacomo da Lentini e di Guido delle Colonne, svilupparono una lirica orientata sia verso l'amor cortese, ma anche verso la politica e l'impegno civile[59]. Guittone d'Arezzo e Bonaggiunta Orbicciani, vale a dire i principali esponenti della cosiddetta scuola siculo-toscana, ebbero un seguace nella figura del fiorentino Chiaro Davanzati[60], il quale importò il nuovo codice poetico all'interno delle mura della sua città. Fu proprio a Firenze, però, che alcuni giovani poeti (capeggiati dal nobile Guido Cavalcanti) espressero il loro dissenso nei confronti della complessità stilistica e linguistica dei siculo-toscani, propugnando al contrario una lirica più dolce e soave: il dolce stil novo[61].
Dante si trovò nel pieno di questo dibattito letterario: nelle sue prime opere è evidente il legame (seppur tenue)[62] sia con la poesia toscana di Guittone e di Bonagiunta[63], sia con quella più schiettamente occitana[64]. Presto, però, il giovane si legò ai dettami della poetica stilnovista, cambiamento favorito dall'amicizia che lo legava al più anziano Cavalcanti[65].
Il matrimonio con Gemma Donati
Quando Dante aveva dodici anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di vent'anni nel 1285[37][66]. Decidere matrimoni in età così precoce era abbastanza comune a quell'epoca; lo si faceva con una cerimonia importante, che richiedeva atti formali sottoscritti davanti a un notaio. La famiglia a cui Gemma apparteneva – i Donati – era una delle più importanti nella Firenze tardo-medievale (al contrario degli Alighieri era di rango magnatizio[67]) e in seguito divenne il punto di riferimento per lo schieramento politico opposto a quello del poeta, vale a dire i guelfi neri.
Il matrimonio tra i due non dovette essere molto felice, secondo la tradizione raccolta dal Boccaccio e fatta propria poi nell'Ottocento da Vittorio Imbriani[68]. Dante non scrisse infatti un solo verso alla moglie, mentre di costei non ci sono pervenute notizie sull'effettiva presenza al fianco del marito durante l'esilio. Comunque sia, l'unione generò quattro figli. Giovanni, il primogenito[66], poi Jacopo, Pietro, Antonia. Pietro fu giudice a Verona e l'unico che continuò la stirpe degli Alighieri, in quanto Jacopo scelse di seguire la carriera ecclesiastica, mentre Antonia divenne monaca con il nome di Sorella Beatrice, sembra nel convento delle Olivetane a Ravenna[66]. Giovanni, della cui esistenza si è sempre dubitato, è attestato da un documento di un notaio fiorentino recante la data del 20 maggio 1314, la cui scoperta fu fatta nel 1940 da Renato Piattoli ma mai pubblicata –, è stato riscoperto nel 2016 con la pubblicazione della nuova edizione del Corpo Diplomatico Dantesco[69][70].
Impegni politici e militari
Lo stesso argomento in dettaglio: Guelfi bianchi e neri e Storia di Firenze § Gli Ordinamenti di Giustizia.
Giovanni Villani, Corso Donati fa liberare dei prigionieri, in Cronaca, XIV secolo. Corso Donati, esponente di punta dei Neri, fu acerrimo nemico di Dante, il quale lancerà contro di lui violenti attacchi nei suoi scritti[71].
Poco dopo il matrimonio, Dante cominciò a partecipare come cavaliere ad alcune campagne militari che Firenze stava conducendo contro i suoi nemici esterni, tra cui Arezzo (battaglia di Campaldino dell'11 giugno 1289) e Pisa (presa di Caprona, 16 agosto 1289)[37]. Successivamente, nel 1294, avrebbe fatto parte della delegazione di cavalieri che scortò Carlo Martello d'Angiò (figlio di Carlo II d'Angiò) che nel frattempo si trovava a Firenze[72]. L'attività politica prese Dante a partire dai primi anni 1290, in un periodo quanto mai convulso per la Repubblica. Nel 1293 entrarono in vigore gli Ordinamenti di Giustizia di Giano Della Bella, che escludevano l'antica nobiltà dalla politica e permettevano al ceto borghese di ottenere ruoli nella Repubblica, purché iscritti a un'Arte. Dante fu escluso dalla politica cittadina fino al 6 luglio del 1295, quando furono promulgati i Temperamenti, leggi che ridiedero diritto ai nobili di rivestire ruoli istituzionali, purché si immatricolassero alle Arti[37]. Dante, pertanto, si iscrisse all'Arte dei Medici e Speziali[73][74].
L'esatta serie dei suoi incarichi politici non è conosciuta, poiché i verbali delle assemblee sono andati perduti. Comunque, attraverso altre fonti, si è potuta ricostruire buona parte della sua attività: fu nel Consiglio del popolo dal novembre 1295 all'aprile 1296[75][76]; fu nel gruppo dei "Savi", che nel dicembre 1296 rinnovarono le norme per l'elezione dei priori, i massimi rappresentanti di ciascuna Arte che avrebbero occupato, per un bimestre, il ruolo istituzionale più importante della Repubblica; dal maggio al dicembre del 1296 fece parte del Consiglio dei Cento[75]. Fu inviato talvolta nella veste di ambasciatore, come nel maggio del 1300 a San Gimignano[77]. In base alle considerazioni di Barbero ricavate dagli interventi che Dante tenne nei vari organi del Comune di Firenze, il poeta si pose sempre su una linea moderata a favore del popolo contro le ingerenze e le violenze dei magnati[78].
Nel frattempo, all'interno del partito guelfo fiorentino si produsse una frattura gravissima tra il gruppo capeggiato dai Donati, fautori di una politica conservatrice e aristocratica (guelfi neri), e quello invece fautore di una politica moderatamente popolare (guelfi bianchi), capeggiato dalla famiglia Cerchi[79]. La scissione, dovuta anche a motivi di carattere politico ed economico (i Donati, esponenti dell'antica nobiltà, erano stati surclassati in potenza dai Cerchi, considerati dai primi dei parvenu)[79], generò una guerra intestina cui Dante non si sottrasse schierandosi, moderatamente, dalla parte dei guelfi bianchi[75][80].
Lo scontro con Bonifacio VIII (1300)
Sentenza dell'esilio di Dante, in una copia post 1465
Nell'anno 1300, Dante fu eletto uno dei sette priori per il bimestre 15 giugno-15 agosto[75][81]. Nonostante l'appartenenza al partito guelfo, egli cercò sempre di osteggiare le ingerenze del suo acerrimo nemico papa Bonifacio VIII, dal poeta intravisto come supremo emblema della decadenza morale della Chiesa. Con l'arrivo del cardinale Matteo d'Acquasparta, inviato dal pontefice in qualità di paciere (ma in realtà spedito per ridimensionare la potenza dei guelfi bianchi, in quel periodo in piena ascesa sui neri[82][83]), Dante riuscì ad ostacolare il suo operato. Sempre durante il suo priorato, Dante approvò il grave provvedimento con cui furono esiliati, nel tentativo di riportare la pace all'interno dello Stato, otto esponenti dei guelfi neri e sette di quelli bianchi, compreso Guido Cavalcanti[84] che di lì a poco morirà in Sarzana. Questo provvedimento ebbe serie ripercussioni sugli sviluppi degli eventi futuri: non solo si rivelò una disposizione inutile (i guelfi neri temporeggiarono prima di partire per l'Umbria, il posto destinato al loro confino)[85], ma fece rischiare un colpo di Stato da parte dei guelfi neri stessi, grazie al segreto supporto del cardinale d'Acquasparta[85]. Inoltre, il provvedimento attirò sui suoi fautori (incluso Dante stesso) sia l'odio della parte nera che la diffidenza degli "amici" bianchi: i primi, ovviamente, per la ferita inferta; i secondi, per il colpo dato al loro partito da parte di un suo stesso membro. Nel frattempo, le relazioni tra Bonifacio e il governo dei bianchi peggiorarono ulteriormente a partire dal mese di settembre, allorché i nuovi priori (succeduti al collegio di cui fece parte Dante) revocarono immediatamente il bando per i bianchi[85], mostrando la loro partigianeria e dando così al legato papale cardinale d'Acquasparta modo di scagliare l'anatema su Firenze[85]. In vista dell'invio di Carlo di Valois a Firenze, mandato dal papa come nuovo paciere (ma di fatto conquistatore) al posto del cardinale d'Acquasparta, la Repubblica spedì a Roma, nel tentativo di distogliere il papa dalle sue mire egemoniche, un'ambasceria di cui faceva parte essenziale anche Dante, accompagnato da Maso Minerbetti e da Corazza da Signa[82].
L'inizio dell'esilio (1301-1304)
Carlo di Valois e la caduta dei bianchi
Tommaso da Modena, Benedetto XI, affresco, anni '50 del XIV secolo, Sala del Capitolo, Seminario di Treviso. Il beato papa Boccasini, trevigiano, nel suo breve pontificato cercò di riportare la pace all'interno di Firenze, inviando il cardinale Niccolò da Prato come paciere. È l'unico pontefice su cui Dante non proferì alcuna condanna, ma neanche verso il quale manifestò pieno apprezzamento, tanto da non comparire nella Commedia[86].
Dante si trovava quindi a Roma[87], sembra trattenuto oltre misura da Bonifacio VIII[88], quando Carlo di Valois entrò a Firenze il giorno di Ognissanti del 1301.[89] Questi, al primo subbuglio cittadino, prese pretesto per far arrestare i capi dei guelfi bianchi con un colpo di mano, mentre i guelfi neri, tornati in città, scatenavano la loro vendetta contro gli avversari politici con assassini e incendi[90]. Il 9 novembre 1301 i nuovi padroni di Firenze imposero alla suprema magistratura, quella di podestà, Cante Gabrielli da Gubbio[89], il quale apparteneva alla fazione dei guelfi neri della sua città natia e diede inizio a una politica di sistematica persecuzione degli esponenti politici di parte bianca ostili al papa, fatto che si risolse alla fine nella loro uccisione o nell'espulsione da Firenze.[75] A seguito di un processo istruito dal giudice Paolo da Gubbio per il crimine di baratteria, Dante (considerato reo confesso in quanto contumace) venne condannato dal podestà Gabrielli dapprima, il 27 gennaio 1302, alla confisca delle proprietà, e successivamente, il 10 marzo, al rogo[91]. Da quel momento, Dante non rivide più la sua patria.
«Alighieri Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estortive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5000 fiorini di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo (in contumacia), e se lo si prende, al rogo, così che muoia”»
(Libro del chiodo - Archivio di Stato di Firenze - 10 marzo 1302[92])
I tentativi di rientro e la battaglia di Lastra (1304)
Dopo la cacciata da Firenze, Dante assieme agli altri maggiorenti bianchi si alleò ai Ghibellini, con l'obiettivo di riprendere il potere in città. L'8 Giugno 1302 è elencato tra i maggiori rappresentanti dei Ghibellini e dei Guelfi Bianchi in occasione di una riunione tra questi e la famiglia degli Ubaldini, in quella che prese il nome di Congiura di San Godenzo.[93] Dopo il fallimento delle operazioni militari del 1302, Dante, in qualità di capitano dell'esercito degli esuli, organizzò insieme a Scarpetta Ordelaffi, capo del partito ghibellino e signore di Forlì (presso il quale Dante si era rifugiato)[94][N 4], un nuovo tentativo di rientrare a Firenze. L'impresa fu però sfortunata: il podestà di Firenze, Fulcieri da Calboli (un altro forlivese, nemico degli Ordelaffi), riuscì ad avere la meglio nella battaglia nei pressi del castello di Pulicciano, nei pressi di Arezzo[95]. Fallita anche l'azione diplomatica, nell'estate del 1304, del cardinale Niccolò da Prato[96], legato pontificio di papa Benedetto XI (sul quale Dante aveva riposto molte speranze)[97][98], il 20 luglio dello stesso anno i bianchi, riuniti alla Lastra, una località a pochi chilometri da Firenze, decisero di intraprendere un nuovo attacco militare contro i neri[99]. Dante, ritenendo corretto aspettare un momento politicamente più favorevole, si schierò contro l'ennesima lotta armata, trovandosi in minoranza al punto che i più intransigenti formularono su di lui dei sospetti di tradimento; pertanto decise di non partecipare alla battaglia e di prendere le distanze dal gruppo. Come preventivato dallo stesso, la battaglia di Lastra fu un vero e proprio fallimento con la morte di quattrocento uomini fra ghibellini e bianchi[99]. Il messaggio profetico ci arriva da Cacciaguida:
«Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch'a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.»
(Paradiso XVII, vv. 67-69)
La prima fase dell'esilio (1304-1310)
Tra Forlì e la Lunigiana dei Malaspina
Il castello-palazzo vescovile di Castelnuovo dove Dante nel 1306 pacificò i rapporti tra i Marchesi Malaspina e i Vescovi-Conti di Luni
Dante fu, dopo la battaglia della Lastra, ospite di diverse corti e famiglie della Romagna, fra cui gli stessi Ordelaffi. Il soggiorno forlivese non durò a lungo, in quanto l'esule si spostò prima a Bologna (1305), poi a Padova nel 1306 e infine nella Marca Trevigiana[57] presso Gherardo III da Camino[100]. Da qui, Dante fu chiamato in Lunigiana da Moroello Malaspina (quello di Giovagallo, visto che più membri della famiglia portavano questo nome)[101], col quale il poeta entrò forse in contatto grazie a un amico comune, il poeta Cino da Pistoia[102]. In Lunigiana (regione in cui giunse nella primavera del 1306), Dante ebbe l'occasione di negoziare la missione diplomatica per un'ipotesi di pace tra i Malaspina, «potenti in un'ampia zona di passaggio fra la Riviera di Levante, l'Appennino e la pianura padana, da Bocca di Magra su per la Lunigiana e il passo della Cisa fino al Piacentino»[103], e il vescovo-conte di Luni, Antonio Nuvolone da Camilla (1297 – 1307)[104]. In qualità di procuratore plenipotenziario dei Malaspina, Dante riuscì a far firmare da ambo le parti la pace di Castelnuovo del 6 ottobre del 1306[58][104], successo che gli fece guadagnare la stima e la gratitudine dei suoi protettori. L'ospitalità malaspiniana è celebrata nel Canto VIII del Purgatorio, dove al termine del componimento Dante formula alla figura di Corrado Malaspina il Giovane l'elogio del casato[105]:
«[...] e io vi giuro.../... che vostra gente onrata.../ sola và dritta e 'l mal cammin dispregia.»
(Pg VIII, vv. 127-132)
Nel 1307[106], dopo aver lasciato la Lunigiana, Dante si trasferì nel Casentino, dove fu ospite, secondo Boccaccio[107], di Guido Salvatico dei conti Guidi, conti di Battifolle e signori di Poppi, presso i quali iniziò a stendere la cantica dell'Inferno[58].
La discesa di Arrigo VII (1310-1313)
Monumento a Dante Alighieri a Villafranca in Lunigiana presso la tomba sacello dei Malaspina
François-Xavier Fabre, Ritratto di Ugo Foscolo, pittura, 1813, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
Il Ghibellin fuggiasco
Il soggiorno nel Casentino durò pochissimo tempo: tra il 1308 e il 1310 si può infatti ipotizzare che il poeta risiedesse prima a Lucca e poi a Parigi, anche se non è possibile valutare con certezza il soggiorno transalpino come già precedentemente esposto: Barbero, raccogliendo le testimonianze sia dei primi commentatori di Dante che di quelli successivi, pensa che al massimo il poeta possa essersi spinto fino alla corte papale di Avignone, pur sottolineando che questa sia solo una mera ipotesi poco fondata[108]. Dante, molto più probabilmente, si trovava a Forlì nel 1310[106], dove ebbe la notizia, nel mese di ottobre[58], della discesa in Italia del nuovo imperatore Arrigo VII, succeduto ad Alberto I d'Asburgo morto assassinato il 1º maggio del 1308[109]. Dante guardò a quella spedizione con grande speranza, in quanto vi intravedeva non soltanto la fine dell'anarchia politica italiana[N 5], ma anche la concreta possibilità di rientrare finalmente a Firenze[58]. Infatti l'imperatore fu salutato dai ghibellini italiani e dai fuoriusciti politici guelfi, connubio che spinse il poeta ad avvicinarsi alla fazione imperiale italiana capeggiata dagli Scaligeri di Verona[110]. Dante, che tra il 1308 e il 1311 stava scrivendo il De Monarchia, manifestò le sue aperte simpatie imperiali, scagliando una violenta lettera contro i fiorentini il 31 marzo del 1311[58], unici tra i Comuni italiani a non aver inviato dei propri rappresentanti a Losanna per omaggiare l'imperatore[111], e giungendo, sulla base di quanto affermato nell'epistola indirizzata ad Arrigo VII, a incontrare l'imperatore stesso in un colloquio privato[112]. Non sorprende, pertanto, che Ugo Foscolo giungerà a definire Dante come un ghibellino:
«E tu prima, Firenze, udivi il carme
Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco.»
(Ugo Foscolo, Dei sepolcri, vv. 173-174)
Nel frattempo Arrigo, dopo aver risolto dei problemi nel Nord Italia, si diresse a Genova e da lì a Pisa[N 6], sua grande sostenitrice: è possibile che Dante fosse al suo seguito[113]. Nel 1312, dopo essere stato incoronato nella Basilica del Laterano dal legato papale Niccolò da Prato il 1º agosto 1312, l'imperatore assediò Firenze dal 19 settembre fino al 1º novembre senza ottenere la sudditanza della città toscana[114]. Il sogno dantesco di una Renovatio Imperii si infrangerà il 24 agosto del 1313, quando l'imperatore venne a mancare, improvvisamente, a Buonconvento[115]. Se già la morte violenta di Corso Donati, avvenuta il 6 ottobre del 1308 per mano di Rossellino Della Tosa (l'esponente più intransigente dei guelfi neri)[106], aveva fatto crollare le speranze di Dante[N 7], la morte dell'imperatore diede un colpo mortale ai tentativi del poeta di rientrare definitivamente a Firenze[106].
Busto di Dante Alighieri presso il Castello di Poppi
Gli ultimi anni
Cangrande della Scala, in un ritratto immaginario del XVII secolo. Abilissimo politico e grande condottiero, Cangrande fu mecenate della cultura e dei letterati in particolare, stringendo amicizia con Dante.
Il soggiorno veronese (1313-1318)
Lo stesso argomento in dettaglio: Della Scala.
All'indomani della morte improvvisa dell'imperatore, Dante accolse l'invito di Cangrande della Scala a risiedere presso la sua corte di Verona[58]. Dante aveva già avuto modo, in passato, di risiedere nella città veneta, in quegli anni nel pieno della sua potenza. Petrocchi, come delineato prima nel suo saggio Itinerari danteschi e poi nella Vita di Dante[116] ricorda come Dante fosse già stato ospite, per pochi mesi tra il 1303 e il 1304, presso Bartolomeo della Scala, fratello maggiore di Cangrande. Quando poi Bartolomeo morì, nel marzo del 1304, Dante fu costretto a lasciare Verona in quanto il suo successore, Alboino, non era in buoni rapporti col poeta[117]. Alla morte di Alboino, il 29 novembre 1311[118], divenne suo successore il fratello Cangrande[119], tra i capi dei ghibellini italiani e protettore (oltreché amico) di Dante[119]. Fu in virtù di questo legame che Cangrande chiamò a sé l'esule fiorentino e i suoi figli Pietro e Jacopo, dando loro sicurezza e protezione dai vari nemici che si erano fatti negli anni. L'amicizia e la stima tra i due uomini fu tale che Dante esaltò, nella cantica del Paradiso – composta per la maggior parte durante il soggiorno veronese –, il suo generoso patrono in un panegirico per bocca dell'avo Cacciaguida:
«Lo primo tuo refugio e 'l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che 'n su la scala porta il santo uccello;
ch'in te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra l'altri è più tardo
[...]
Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che' suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.
A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;»
(Paradiso XVII, vv. 70-75, 85-90)
Nel 2018 è stata scoperta da Paolo Pellegrini, docente dell'Università di Verona, una nuova lettera, scritta probabilmente proprio da Dante nel mese di agosto del 1312 e spedita da Cangrande al nuovo imperatore Enrico VII; essa modificherebbe sostanzialmente la data del soggiorno veronese del poeta, anticipando il suo arrivo al 1312, ed escluderebbe le ipotesi che volevano Dante a Pisa o in Lunigiana tra il 1312 ed il 1316[120].
Il soggiorno ravennate (1318-1321)
Andrea Pierini, Dante legge la Divina Commedia alla corte di Guido Novello, 1850, dipinto a olio, Palazzo Pitti-Galleria D'Arte Moderna, Firenze
Dante, L'arzana de' Veneziani
Dante, per motivi ancora sconosciuti, si allontanò da Verona per approdare, nel 1318, a Ravenna, presso la corte di Guido Novello da Polenta, uomo «poco più giovane di Dante...[che] apparteneva a quella grande aristocrazia dell'Appennino che da tempo stava imponendo il suo dominio sui Comuni della Romagna»[121]. I critici hanno cercato di comprendere le cause dell'allontanamento di Dante dalla città scaligera, visti gli ottimi rapporti che intercorrevano tra Dante e Cangrande. Augusto Torre ipotizzò una missione politica a Ravenna, affidatagli dallo stesso suo protettore[122]; altri pongono le cause in una crisi momentanea tra Dante e Cangrande, oppure nell'attrattiva di far parte di una corte di letterati tra i quali il signore stesso (cioè Guido Novello), che si professava tale[123]; ancora, chi pensa che Dante, uomo fiero e indipendente, resosi conto di essere diventato un cortigiano a tutti gli effetti, preferì prendere congedo dagli Scaligeri[124]. Tuttavia, i rapporti con Verona non cessarono del tutto, come testimoniato dalla presenza di Dante nella città veneta il 20 gennaio 1320, per discutere la Quaestio de aqua et terra, l'ultima sua opera latina[125].
Gli ultimi tre anni di vita trascorsero relativamente tranquilli nella città romagnola, durante i quali Dante creò un cenacolo letterario frequentato dai figli Pietro e Jacopo[62][126] e da alcuni giovani letterati locali, tra i quali Pieraccio Tedaldi e Giovanni Quirini[127]. Per conto del signore di Ravenna svolse occasionali ambascerie politiche[128], come quella che lo condusse a Venezia. All'epoca, la città lagunare era in attrito con Guido Novello a causa di attacchi continui alle sue navi da parte delle galee ravennati[129] e il doge, infuriato, si alleò con Forlì per muovere guerra a Guido Novello; questi, ben sapendo di non disporre dei mezzi necessari per fronteggiare tale invasione, chiese a Dante di intercedere per lui davanti al Senato veneziano. Gli studiosi si sono domandati perché Guido Novello avesse pensato proprio all'ultracinquantenne poeta come suo rappresentante: alcuni ritengono che sia stato scelto Dante per quella missione in quanto amico degli Ordelaffi, signori di Forlì, e quindi in grado di trovare più facilmente una via per comporre le divergenze in campo[130].
La morte e i funerali
L'ambasceria di Dante sortì un buon effetto per la sicurezza di Ravenna, ma fu fatale al poeta che, di ritorno dalla città lagunare, contrasse la malaria mentre passava dalle paludose Valli di Comacchio[106]. Le febbri portarono velocemente il poeta cinquantaseienne alla morte, che avvenne a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321[106][131]. I funerali, in pompa magna, furono officiati nella chiesa di San Pier Maggiore (oggi San Francesco) a Ravenna, alla presenza delle massime autorità cittadine e dei figli[132]. La morte improvvisa di Dante suscitò ampio rammarico nel mondo letterario, come dimostrato da Cino da Pistoia nella sua canzone Su per la costa, Amor, de l'alto monte[133].
Le spoglie mortali
Le "tombe" di Dante
Lo stesso argomento in dettaglio: Tomba di Dante.
La tomba di Dante a Ravenna, realizzata da Camillo Morigia
Dante trovò inizialmente sepoltura in un'urna di marmo posta nella chiesa ove si tennero i funerali[134]. Quando la città di Ravenna passò poi sotto il controllo della Serenissima, il podestà Bernardo Bembo (padre del ben più celebre Pietro) ordinò all'architetto Pietro Lombardi, nel 1483, di realizzare un grande monumento che ornasse la tomba del poeta[134]. Ritornata la città, al principio del XVI secolo, agli Stati della Chiesa, i legati pontifici trascurarono le sorti della tomba di Dante, la quale cadde presto in rovina. Nel corso dei due secoli successivi furono compiuti solo due tentativi per porre rimedio alle disastrose condizioni in cui il sepolcro versava: il primo fu nel 1692, quando il cardinale legato per le Romagne Domenico Maria Corsi e il prolegato Giovanni Salviati, entrambi di nobili famiglie fiorentine, provvidero a restaurarla[135]. Nonostante fossero passati pochi decenni, il monumento funebre fu rovinato a causa del sollevamento del terreno sottostante la chiesa, cosa che spinse il cardinale legato Luigi Valenti Gonzaga a incaricare l'architetto Camillo Morigia, nel 1780, di progettare il tempietto neoclassico tuttora visibile[134].

